“Lo so cos’è un no. Una negazione, l’assenza di volontà, la decisione di non provare, non sentire, non sapere, non fare. Il mio problema è che non lo so dire.” Come quel giorno di Dicembre, davanti a quell’altare, accanto a quell’uomo sconosciuto, dove ho detto sì perché nella mia mente e nel mio cuore la raffigurazione del no era solo un buco nero, indecifrabile, da cui arrivavano segnali sconosciuti. Segnali … Come quello indefinito che mi colse nel sonno, all’improvviso, nel mio letto di bimba dove facevo sogni di bimba e che una mano nel buio mi rubò, di colpo. E le conoscevo, nel profondo, quelle due lettere magiche, e nel sogno le urlavo. Ma non si possono tradurre i sogni in parole, allora meglio lasciarle lì, nella favola bella che mi raccontavo ogni notte, dove io dicevo no e l’orco cattivo svaniva nel nulla.
Indossavo anche la cravatta, se potevo, se la circostanza lo permetteva. Perché comunque ci tenevo alla mia immagine. I capelli erano corti come le setole di una spazzola, non stavano mai a posto, e allora li imprigionavo in cappelli a falde larghe, per nascondere lo sguardo. “Ti conci da maschio, sempre in pantaloni, sempre con quei maglioni dove ci stai due volte. Perché?” La voce di mia madre mi accompagnava con la stessa domanda ogni sera, ogni volta che aprivo la porta di casa per uscire, andare, fuori da lì, via. Perché? Perché era più semplice, ma non glielo potevo dire. Fuori era territorio di caccia, una guerra era in corso tra le anime perse, e io dovevo mimetizzarmi per agire, per non scoprire al nemico le mie armi. Non glielo potevo dire, perché se avesse fatto la domanda giusta avrei dovuto rispondere, avrei dovuto dire sì, quindi meglio tacere.
Lui mi seguiva, con la sua auto. Voleva spiare, e io lo lasciavo fare. Non sapevo mai chi avrei incontrato, chi avrebbe accettato la sorpresa di trovarmi donna sotto quel cappello, chi sarebbe stato l’orco cattivo di turno quella notte, l’orco a cui mi sarei arresa senza lottare, perché lottare poteva fare molto, molto male. E poi c’era lui, in ogni caso, se avessi avuto bisogno. Lui mi avrebbe protetta, mi avrebbe salvata.
La danza cominciò, come ogni notte. Il locale era pieno. Facce sfumate, sbiadite dal fumo di centinaia di sigarette sempre accese, facce lucide di sudore e voglia, facce tristi, disperate. Non tutte però, io lo sapevo. “Lo so che ci sei, mostrati, fammi annusare il tuo odore.” E lui arrivò, alle mie spalle, mi alitò sul collo. “Ora cominci a slacciarti la cravatta e poi la dai a me. E non voltarti. Non guardare.” Non mi voltai, non guardai. Tolsi la cravatta e liberai il collo, lungo, candido. Chinai la testa e liberai la curva della spalla offrendola alla bocca avida. Lui si avvicinò, come falena alla luce e allora mi voltai, di scatto. Gli occhi negli occhi. “Seguimi”, e lui lo fece, senza una parola.
Quella notte era un camionista di passaggio, le notti prima era stato un bancario, un giornalista, un meccanico, tante le interpretazioni, tanti volti con la stessa faccia, tanti orchi con lo stesso sguardo. E io acconsentivo a questo gioco perché lui me lo aveva chiesto.
Poi mi disse “Fallo, davvero, con un altro. Voglio guardare.” Neppure l’eccitazione del tradimento mi era concessa, trasformata in rappresentazione per il suo piacere perverso, malato. Lo fissai sgomenta, scuotendo la testa e quella sillaba affiorò alle mie labbra, sussurrata: “No”. Tremavo, scossa fin nelle fondamenta della mia anima, mi battevano i denti per l’agitazione, la paura delle conseguenze. Ma non accadde nulla. Non crollò il mondo, non scomparvero i profumi, non divenne tutto buio, lui non mi toccò con un dito. Nulla. Tranne la consapevolezza dentro me che ora avevo un’altra arma per combattere gli orchi, che l’avevo sempre avuta.
Il piacere di dire no non è legato solo al fatto che questa parola ci può evitare inutili sofferenze, ma è anche lo strumento con il quale noi possiamo soddisfare una nostra inconfessabile forma di sadismo. Dire no a qualcuno che si aspetta un’approvazione per andare avanti, quando dal nostro sì può dipendere lo spostamento da una parte o dall’altra dell’ago della bilancia e la vita di questo qualcuno può cambiare, dire no per sorprendere o per punire, ci fa godere, questa è la realtà. E io ho imparato a dire no a tutto, anche a me stessa. E ho imparato a non sognare più. Il godimento del corpo è effimero.
“Sono sempre io che conduco il gioco, io che vado a caccia, io che seduco. E nel preciso istante in cui questo accade fuggo via. Non so mai se il cedimento avviene per volontà di conoscere me, la persona che sono, o solo perché la preda si è arresa senza lottare.” Mi negavo la vita, fuggivo da lei a da tutte le sue implicazioni senza affrontarle, mi negavo l’amore, in qualunque forma si manifestasse.
Era inevitabile però. Mi sedevo lì, al mio posto, dietro la scrivania, pronta a ricevere il primo cliente. Non appena si sedeva mi protendevo verso di lui se era un uomo, mi appoggiavo indietro sulla spalliera della poltroncina se era una donna. Ma l’effetto era lo stesso. Perché non era il mio corpo a parlare, erano gli occhi. Era come se lanciassi una ragnatela invisibile che pian piano avvolgeva la vittima predestinata come in un bozzolo, e quando di lui o di lei non restava nulla, se non un inutile gomitolo, volgevo lo sguardo altrove e restavo a osservare gli sviluppi. Ho ricevuto inviti a cena, a aperitivi, al cinema, a teatro, indifferentemente da uomini e da donne, e tutti con un chiaro sottendimento. Ho sempre rifiutato. Tranne quando l’avversario era all’altezza. Quando al mio gioco qualcuno rispondeva con lo stesso gioco era degno di ricevere la mia attenzione. Ma ero io a prendere l’iniziativa.
Non voglio più, basta, basta. Ho bisogno di capire chi sono, se merito qualcosa di diverso, e se non è così, perché. Dopo le perversioni di un marito che non volevo ma che ho dovuto accettare, ho chiesto e ottenuto il dono di una relazione senza sesso. Il piacere l’ho cercato e l’ho trovato altrove. Ma non c’è equilibrio in tutto questo. Continuavo a negarmi ciò che per molti è ovvio, un legame compiuto, completo, appagante. “Io non posso avere tutto. Ho giocato tanto, troppo, ora ne pago le conseguenze. Ora ricevo ciò che ho chiesto, una relazione senza sesso.” Notti insonni a cercare un piacere di seconda mano senza mai trovarlo, col tempo che passa e il desiderio che pian piano si affievolisce, fin quasi a scomparire. Me lo sono domandata tante volte: “Perché questa condanna?”
Sono andata in terapia per trovare una risposta. Mi ha detto la terapista che io non mi accetto, mi nego il piacere dell’amore perché ritengo di non meritarlo, forse per un trauma subito, da piccola. Ho mentito alla terapista, ma ora che conosco la risposta, ora che so quello che avevo sempre saputo, non mi interessa sapere come posso guarire. Continuerò la mia relazione senza sesso finché non diventerà anche senza amore. Forse allora potrò ricominciare.
“Allora cosa è un no? E cosa è un sì?” Non c’è differenza. Dipende da come è posta la domanda. L’unica certezza è l’incertezza del forse.