Allarme #selfpublishing: l’invasione straniera non ci salverà

Immagine presa da qui

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Queste le premesse:

A fine agosto leggo un articolo/intervista scritto dall’amico Mauro Sandrini sul sito della SelfPublishing School (qui) che annuncia lo “sbarco” in Italia dell’autrice self inglese Joanna Penn con un suo libro tradotto in Italiano. Fin qui nulla di strano, se non fosse per il fatto che è la prima self straniera a farlo, che la Penn è conosciuta in tutto il mondo come selfpublisher, che vende centinaia di migliaia di copie… insomma una fuoriclasse, e pure esperta di marketing. Bene! Mi son detta, impariamo da chi ne sa di più! E ho provato a “leggere tra le righe” le sue strategie di marketing.

In seguito ho letto l’articolo/recensione di Falminia P. Mancinelli su Leggereonline (qui) in cui la giornalista “boccia” il romanzo della Penn e si domanda se è giusto mettere in circolazione tali scempiaggini solo in nome e per conto del “dio marketing”.

Oggi leggo un nuovo articolo di Flaminia P. Mancinelli su L’Indro e sempre sul caso Penn (qui), ma questa volta il focus è un altro: può il selfpublishing nostrano resistere all’onda d’urto dell’invasione straniera, più agguerrita e ferrata di noi?

E veniamo alla riflessione.

Ho riportato l’articolo nel gruppo FB Gli scrittori sperduti nell’isola che non c’è, per stimolare una discussione. Ebbene, c’è stata. La realtà che ne emerge è una sola: preoccupazione. Perché gli Italiani ( e i lettori nello specifico) hanno la tendenza ad essere esterofili (senza generalizzare ovviamente, suvvia non alzate subito gli scudi! Sono lettrice anche io…) e ad accogliere quanto arriva da fuori con maggior interesse. I lettori italiani non amano molto il selfpublishing. E hanno ragione! In fondo sono stati spesso sommersi da libri illeggibili (come si evince dall’articolo della Mancinelli), come dar loro torto? Tutta questa anarchia editoriale ha fatto sì che davvero chiunque potesse pubblicare, impedendo in questo modo agli autori di qualità di emergere. Perché noi Italiani abbiamo anche la tendenza a fare di tutte le erbe un fascio. E pensare che il selfpublishing (di qualità) potrebbe contrastare ampiamente l’abominevole fenomeno delle EAP. Ma state pur tranquilli che i lettori saranno disposti ad acquistare di più un libro EAP che un self. Perché? Perché c’è un marchio, tutto qui, che dovrebbe rappresentare una garanzia che, nel caso delle EAP non esiste. Ma mica i lettori conoscono tutte le Case Editrici, mica vanno a consultare il loro pedigree quando sono in libreria…

Detto questo, la preoccupazione adesso è un’altra. Se è vero che gli Italiani sono tendenzialmente esterofili, i lettori italiani seguono la scia e si rischia che esaltino (decretandone il successo) ogni self straniero che decide di pubblicare in italiano. Perché “se è di fuori è certo valido”, “se ha venduto tanto a casa sua è di certo uno che merita” etc etc. E chi se ne frega se è un selfpublisher anche lui! Chi se ne frega se ha scritto una porcheria come tante! NON È ITALIANO, questo è l’importante. Così si soddisfa anche la malcelata invidia di chi, lettore/autore, non ha mai venduto nulla. Sono davvero tanti i lettori che hanno un libro nel cassetto che nessuno ha mai voluto pubblicare (ci sarà un motivo, o no? Fatevi una domanda e datevi una risposta…) e che magari hanno auto pubblicato sempre senza alcun risultato. Questi sono i maggiori detrattori del selfpublishing italiano.

Conclusioni.

Io auspico una rinascita del selfpublishing (siamo già alla ri-nascita, quanto siamo svelti a danneggiare le cose belle…) con una maggior consapevolezza del potenziale intrinseco e con una maggior autodisciplina: abbiamo un dovere verso i lettori, rispettiamoli. Ma non solo. Spero vivamente che un allarme del genere, questa “invasione degli ultraself stranieri” faccia aprire gli occhi a tutti. Signori lettori, il self non è il demonio, c’è del buono in esso. Non lasciatevi fuorviare dal nome straniero: spesso dietro c’è la stessa fuffa che c’è da noi. Non premiate il self d’oltreoceano perché ha i profumi del vento occidentale (Shelley era un caso a parte…), altrimenti seppellirete ogni possibilità che gli scrittori italiani potrebbero avere. Un caro amico mi ha raccontato di aver pubblicato su una piattaforma letteraria alcuni racconti con il suo nome in italiano e uno con uno pseudonimo straniero. Indovinate quale racconto è stato il più letto? Ecco, non facciamo questo. Già l’Italia si trova sull’orlo di un precipizio di cui non si vede il fondo, e qualcuno ci è anche caduto dentro e non si hanno più notizie sulla sua sorte. Almeno per la narrativa, la letteratura, l’arte in genere scegliamo NOI STESSI.

41 thoughts on “Allarme #selfpublishing: l’invasione straniera non ci salverà

  1. Un articolo ricco di spunti. Molto interessante. Ci sarebbe da aggiungere un aspetto però. Perché in Italia abbiamo un approccio col marketing sbagliato? Molti di autori di self (io sono uno dei tanti) si accontentano che il libro venga letto dagli amici, dai parenti, dai colleghi di lavoro (quando un lavoro ce l’hai). Il primo pensiero è: parto con loro, magari qualche libro lo compro io e lo regalo… Poi, però, finiamo per accontentarci, per non investire più su quello che abbiamo scritto. Speriamo tutti che arrivi la mano dall’alto che ci regali la notorietà, che ci regali copie vendute. Continuiamo a mandare il libro alle case editrici perché noi stessi sappiamo che autopromuoversi è un lavoro, costa fatica, qualche investimento e che abbiamo altre priorità. Bisognerebbe, quindi, cambiare anche la mentalità di chi si autopubblica. Il tempo che si dedica alla scrittura è, e deve essere, in un rapporto di 1 a 1milione rispetto al tempo che dobbiamo impegnare per promuoverlo. In più bisogna capire come promuoverlo. In giro ho letto qualche testo sul marketing e su come usare i social per promuoversi, ma siamo sempre nell’ambito del dilettantismo. Il discorso sulle social intelligence è complesso e articolato e in Italia siamo ancora all’anno zero. Quindi, chiudendola qui, c’è bisogno di una nuova cultura autoimprenditoriale in un momento in cui anche i grossi marchi e le grosse librerie stanno chiudendo i battenti.

    • Giuseppe, sono assolutamente d’accordo con te. Un’autopromozione di stampo più imprenditoriale da parte degli autori è necessaria, come è vero che chi scriv vorrebbe fare solo questo. Il fatto è che questo schema non funziona più da tanto tempo, e gli autori non vogliono farsene una ragione. E’ illusorio pensare che una CE li solleverebbe dal pesante fardello della promozione, quali che siano le dimensioni della CE. Qui il problema è un altro: svegliarsi dal letargo nel quale siamo caduti altrimenti ci fanno le scarpe e pure il cappotto. Bisogna che i lettori sappiano come stanno realmente le cose, e solo parlandone e diffondendo casi come quello del mio articolo forse, dico forse, le cose possono cominciare a cambiare. Senza MAI dimenticare la qualità dell’offerta.

  2. Io ho 1, 10, 10, 1000 pregiudizi sul self. Perchè? Perchè per un autore buono ce ne sono 1000 indecenti. Inoltre, di questi 1000, ce ne sono almeno 100 che pensano che bombardare i social network proponendo a persone a caso di leggere (ed eventualmente acquistare) il proprio libro sia una buona strategia (ti ricordi il post in cui ho taggato te ed altri? Ecco, quel tizio era proprio convinto di star facendo le mosse giuste). Tanto l’autoproduzione funziona bene nel campo musicale – che è quello che funziona meglio -, altrettanto sono convinto che NON possa funzionare nella scrittura.
    L’unica eccezione che mi viene in mente è quella di chi si autopubblica un libro sapendo già che ha un buon numero di persone che lo compreranno. Uno dei maggiori “influencer” di Facebook, l’ex attore di Star Trek George Takei (avrete sicuramente visto e/o condiviso qualche link proveniente dalla sua pagina FB), che conta qualcosa come 4 milioni di fan, lo ha fatto, e ovviamente vende che è una bellezza – l’ho comprato pure io, per dire. Questa cosa vale per lui come vale per qualunque personaggio pubblico che abbia una certa fama e una buona presenza sui social media, come per i blogger “di successo”.
    Ma per il resto, secondo me, il selfpublishing è senza speranza perchè viene a mancare tutto il supporto della casa editrice, sia in fatto di editing (dice: te lo fai fare da una agenzia e glielo paghi. Beato te che t’avanzano i soldi, rispondo), che in fatto di promozione.
    Ricapitolando: il self, per come la vedo io, funziona se e solo se hai già dei potenziali lettori pronti a comprarti un libro (che siano i tuoi fan/lettori, o una nicchia tematica ben identificata), sennò è tempo sprecato

    • Dimenticavo di rispondere al quesito specifico che è oggetto del post: i self publisher italiani possono dunque stare tranquilli, nessuna invasione straniera cambierà lo status quo esposto qui sopra: non vendono ora e non venderanno dopo 🙂

      • Cioè vendono, e a volte anche tanto. Quando un self vende 2/3000 copie del suo libro, poco importa che sia una porcheria, poco importa in che modo ci sia riuscito, autopromozione selvaggia o no: i motori di ricerca sono stupidi, Amazon in primo luogo. E allora te lo ritrovi in cima alle classifiche, nei consigli di lettura. Poi ci sono i “recensori” comprati che ne scrivono lodi e quando capita il povero “lettore” vero che compra e legge sul serio la morale ovvia è “il selfpublishing fa schifo”. Purtroppo è così che accade, sempre più spesso.

      • Siamo sempre lì: il problema non è il self publishing in sè, ma l’uso che se ne fa. E se siamo un paese pieno di gente di merda, è inutile stupirsi che facciamo del SP un uso di merda, per dirla terra terra.

    • Come dicevo Impossiball, tu hai ragione: siamo stati capaci di far diventare una cosa potenzialmente buona un disastro. E ne pagano le conseguenze quei buoni di cui sopra. Non è il selfpublishing in sé ad essere IL MALE: è chi lo utilizza male a farne una cosa negativa. Ecco, mi piacerebbe un’inversione di tendenza, una vera selezione, ritrasformare il self in opportunità. Dici bene: gli autori VIP vendono bene perché hanno un folto seguito. E questo è uno dei motivi per cui le CE grandi scelgono di pubblicare solo VIP, anche prestati alla narrativa, o autori stranieri che tanto hanno stravenduto a casa loro e tradurre costa meno che promuovere di sana pianta. Ma qui si va in OT. Ribadisco il concetto: lettori (io in primis) dobbiamo stare attenti a non pensare sempre che l’erba del vicino sia più verde. Non è così.

      • Sono convinto che anche in America il Self Publishing sia una giungla di mediocri in cui ogni tanto salta fuori un fortunello che vende un boato di copie (hanno un mercato sterminato) e poi dice che fare da sè è fico e funziona. Grazie ar cazzo, a dirlo DOPO siamo capaci tutti.
        Per cui, siccome non è il SP ad essere il male ma le persone che lo utilizzano a cazzo, e conoscendo il genere umano, la conclusione dovrebbe essere abbastanza ovvia: non c’è speranza.

      • Le rivoluzioni sono sempre così, a volte difficili da gestire. Io penso che se si riuscisse a trasformare il self in qualcosa di più selettivo, se il lettore sapesse che questa è un’opportunità per combattere le EAP (eppure se ne parla tanto in giro, possibile che ancora in tanti siano all’oscuro?), forse qualche speranza ci sarebbe.

      • Da qualche parte ho risposto anche a questo. Io non lo so, magari avessi le risposte! Di certo dovranno impegnarsi i lettori.

  3. Sono in imbarazzo e anche confuso. Sono (sono stato) esterofilo per quanto riguarda la fantascienza. Poi ho dovuto ricredermi. Forse dovrò ricredermi ancora perché mi dicono che il mondo inventato in un SP era simile ad un fantasy già uscito anni prima e perché quello che sto leggendo ora è pieno di refusi, anche se mi piace. Poi mi toccherà stroncare una premio Nobel per la letteratura (Doris Lessing), un romanzo che è stato finalista nel Brooker Prize. E chi sono io per farlo?

    Eppure non mi sento un lettore sprovveduto alle prime armi. Il marketing, certo, importante, certo, facciamolo, certo. Andrà bene per molti, ma non per tutti. C’è letteratura che va inquadrata nel contesto storico, c’è letteratura che dirà qualcosa anche fra 1000 anni, c’è letteratura che fra 10 anni sparirà, c’è letteratura che oggi non dice nulla e avrà da dire qualcosa fra qualche tempo. Non starà a noi deciderlo, però.

    La realtà è che le CE pubblicano troppo in Italia. Ci suono più nuove uscite che lettori. Il SP non fa altro che peggiorare la situazione. (Il che non vuol dire che non ci siano cose degne di lettura, tutt’altro!) Il marketing del SP rischia di drogare ancora di più una situazione insostenibile, dove l’offerta supera di gran lunga la domanda.

    Il Tempo selezionerà i migliori, speriamo. Come lettori saremo più confusi di altri, ma forse anche più fortunati, per avere una vasta scelta. Educarci alla ricerca della qualità sarebbe bello, ma temo che dovremo fare tutto da soli. 😐

    • Educarci alla ricerca della qualità sarebbe bello, ma temo che dovremo fare tutto da soli.

      Bravo Comiz (visto? Non ti blasto sempre! 😀 ).
      Io ho 3, forse 4 persone dei cui consigli letterari mi fido, per il resto faccio tutto da me: so cosa mi piace, cosa NON mi piace, e sono restio ad uscire fuori dal mio campo per il semplice motivo che già faccio fatica a stare appresso alle cose che mi piacciono (e ovviamente compro più libri di quanti ne riesca a leggere), figuriamoci sperimentare i libri di un selfautore che mi contatta su facebook (Comiz, ti sei perso una roba epocale, dovresti fgarti FB solo per queste cose!).

      • (Su facebook dovrò rifare un comizio, prima o poi… 🙂 )
        In realtà i molestatori scrittori wannabe sui socialcosi non fanno marketing. Fanno una cosa che viene chiamata con lo stesso nome, ma che è in realtà spam, detto anche rotturadirotule. (Io lo chiamo markètting)

        Cetta e Gaia fanno marketing, per fare esempi che conosciamo. Ma non fanno spam.

      • Io vorrei conoscere il primo che ha deciso di fare spamming e ha avuto riscontri positivi. Vorrei conoscere la sua cerchia di amici/fans. Ma credo sia come voler conoscere il sesso degli angeli…

      • Comiz, come si dice a Roma, si nun le sai le cose, salle (se non sei pratico di un determinato argomento, informati). Se secondo te (che non hai FB) è possibile confondere quello che fa Gaia con quello che fanno i rompiscatole, stiamo molto freschi. Tanto per cominciare, Gaia NON fa marketing, almeno non in senso letterale. Gaia ha un blog, scrive le sue cose, e ogni tanto ci infila gli appuntamenti con le presentazioni del libro. Non tenta di venderlo a nessuno, non racconta di mirabolanti dati di vendita, non elenca recensioni, non si lagna del fatto che sa di aver venduto ben otto copie su amazon ma sempre al 15416° posto sta. Il tizio rompiscatole di cui ho parlato su FB, invece, fa esattamente questo, e in più rompe le scatole a buffo. Più che marketing, è stalking.

      • @impossiball delle 8.19
        Le sallo, le sallo! Gaia fa marketing. Tu non lo chiami così, pochi lo chiamerebbero così, ma avere una presenza attiva e non invasiva in rete aiuta le vendite e la conoscenza dell’opera. Questo non vuol dire diventare famosi o ricchi. Significa semplicemente avere una possibilità in più per farsi conoscere e farsi leggere.
        No, NON confondo Gaia con i rompiscatole. Non potrei mai!

      • Diciamo che nel suo caso è marketing involontario: tu cerchi una roba su google, finisci nel suo blog, leggi la cosa che cercavi, butti un occhio ai tramisti (ovviamente su uno spigolo), ti fai 4 risate con una stroncatura, e alla fine ti casca anche l’occhio sulla copertina di Gialo di Zucca. Qualche suo lettore invidioso penserà che fa tutto ‘sto sbattimento per farsi pubblicità e vendere di più (il post su Fabio Volo dimostrò esattamente il contrario), ma per come la vedo io il marketing è una cosa un po’ più finalizzata e meno casuale.
        Semmai, una cosa che aiuta TASTISSIMO a vendere nell’epoca dei social network è la reputazione online: avere una integrità, non dire stronzate, non farsi trascinare in discussioni sterili, non finire dentri polemiche assurde (ed uscirne sconfitti) e, soprattutto, non fregare i propri lettori sono le basi per avere una buona reputazione. Ecco, secondo me la reputazione è il vero marketing di internet 2.0: essere considerati affidabili nelle cose che si scrivono.

    • Il fatto è che davanti a tanti lettori coscienziosi e, perlopiù, confusi, ce ne sono moltissimi, troppi, che si fanno ingannare dal marketing d’assalto. Mi capita di leggere manoscritti inediti e, ti assicuro, leggo tanta roba bella (che magari nessuno pubblicherà per le ragioni di cui discutiamo) e tanta, troppa, roba bruttissima che domani potremmo ritrovarci self. Nonostante i pareri negativi, le stroncature. Come lettrice non so che fare nei confronti di questi scrittori. Come autrice non so che fare nei confronti dei lettori scettici. Forse sono troppo ibrida per prendere posizione. Come vedi Comizietto c’è chi è più confuso di te…

      • La tua risposta mi fa venire in mente una cosa: le case editrici e il mondo dell’editoria in genere fanno sempre di tutto per tenersi stretti quelli che chiamiamo “lettori forti”. Ora, secondo me è proprio il concetto di lettore forte ad essere sbagliato, e mi spiego: se una signorina compra TUTTE le romantiche cagate fascettate che pubblica Newton Compton (i vari Amore a New York, Innamorarsi da Tiffany, Ti prego lasciati lasciare, Il profumo degli ananas selvatici, I love shopping a Genazzano, ecc.), se le legge e le piacciono, questa è una lettrice forte. Io invece lascio i libri sul comodino anche un mese, perchè alla fine ho tanti interessi e poco tempo, e se spend o parecchio su ibs è perchè in casa siamo in 4 e i libri piacciono a tutti. Ma sicuramente, per le case editrici, la lettrice forte è quella che compra tanto, non me che compro coscenziosamente. Ecco, questi sono, secondo me, i lettori da tenersi stretti: quelli coscenziosi, quelli informati, quelli che guardano una fascetta e pensano ad Alberto Forni, quelli che scelgono comunque letture di qualità, che siano libri fantasy, saggi o di narrativa, e che se ne fregano se un autore è italiano o straniero, basta che il libro sia bello.

      • Se fosse possibile li coltiverei, annaffiandoli ogni giorno questi lettori forti (e io mi considero tale, anche perché a volte ci vuole “forza” a leggere nonostante tutto). Alla fine tutto si riduce alla qualità, che non è proprio la fine ma dovrebbe essere “il principio” che guida ogni scrittore. Se c’è qualità, self o non self, quella esce. Coltivare il proprio orto di lettori forti proponendo sempre cose di qualità e lasciare che il passaparola faccia il resto, questo dovrebbe essere il segreto.

      • Il problema, secondo me, è che i lettori forti – di qualunque dei due tipi che ho citato – siano troppo pochi per tenere in piedi una casa editrice. Per cui, o sei minimum fax che pubblichi solo cose di alto, altissimo valore letterario (ma ti perdi quelli come me che trovano illegibile Nicola Lagioia), o ti rivolgi ad una nicchia ben precisa, delineata e possibilmente spendacciona (la Tsunami pubblica tutti e soli libri a tema musicale, curatissimi e ben tradotti), o sennò devi scegliere tra il navigare a vista e l’immettere sul mercato valanghe di libri contando sul fatto che almeno uno stra-venderà.

      • Gaia e Cetta fanno marketing?? Allora lo faccio anche, io perché dietro ogni blog c’è sempre un po’ di vanità e di tentativo di farsi conoscere. Se per quello c’è sempre e ovunque.
        La tipa che tenta di far credere che si autoproduce, invece, è una cialtrona.
        Per il resto i miei gusti di lettura sono disordinati, a dir poco. Mi piace quasi solo l’ucronia, la distopia e, con molte eccezioni, la fantascienza. A meno che non siano proprio pagine che mi catturano, o pagine “sporche”.

      • Vebè, facciamo marketing forse quando annunciamo l’uscita del libro. Avre un blog forse è fare “marketing” di sé stessi. Ci sono già troppi forse in questa risposta. Forse non è così dunque. Tu dici che la Penn è pubblicata da altri? Vedi però che questi stranieri ne sanno sempre una più del diavolo?

      • @marioborghi delle 11.20
        Tutti noi facciamo “marketing” di noi stessi, sempre. Ma io riserverei la parola marketing alla vendita di qualcosa. Se dovessi vendere qualcosa, e usassi il mio blog per venderlo, farei marketing. Se non ho nulla da vendere, il mio blog serve per farmi conoscere e basta, non userei la parola marketing.

        Se rompo le rotule al prossimo non faccio più marketing. Chi non ha nulla da vendere diventa troll. Chi ha qualcosa da vendere diventa spammer.

  4. (fantastico, ho scritto coscenza e coscenziosamente. La cosa ancora più fantastica è che su google ci sono 1.300.000 risultati per coscienza e 1.700.000 per coscenza. Crusca che dici, permettiamo di levare quella i inutile? Tanto non è che serve ad evitare confusione, come camicie/camice :p )

    • Quindi Gaia che non ha nulla da vendere in che categoria è da sistemare? E Stranoforte? Entrambi non hanno nulla da vendere ma scassano. Cetta certo che faresti meglio a darti al giardinaggio sempre meglio che occuparsi di Gaia e Stranoforte!

      • Gentile Ortensia, oi non ci conosciamo e sinceramente non capisco cosa c’entri il suo commento con quanto da noi dibattuto. Lo trovo oltretutto offensivo. Se ha dei problemi con Gaia e Stranoforte li risolva altrove, non qui sul mio blog. Amo il giardinaggio, ma ho la tendenza a far appassire i fiori, quindi, specie per quanto la riguarda, non è un buon suggerimento.

      • Se per scassare si intende aprire un proprio blog e fare le pulci a concorsi e case editrici, non vedo il problema: mica vengono sulla mia pagina facebook a pubblicizzare i loro prodotti.
        Cmq, un commento del genere, per altro piazzato a cazzo di cane, mi fa pensare che la qui presente signora floreale abbia messo un commento dove capita dopo essere stata mazzolata dai due in questione 😀

  5. Condivido le perplessità sul self e anche io – se proprio devo scegliere – lo preferisco all’EAP, ma, per restare sull’argomento Penn – e dopo avere letto “Morti di fama”, di Loredana Lipperini e Giovanni Arduino – mi pongo alcune domande (oltretutto non si deve dimenticare che io sono diffidente e malpensante di natura): non è che dietro questa scrittrice c’è una macchina occulta e bene organizzata? Per sbarcare in Italia ha dovuto far tradurre, bene o male che sia, quel libro da qualcuno. Non è che, invece, non è self proprio per nulla ma si appoggia a strutture ben precise che ne hanno costruito un personaggio a tavolino? Non a caso pare abbia esordito con dei libri dedicati a “come lavorare divertendosi”.
    Il libro è una mezza schifezza, prendiamo per buone le parole di chi lo ha recensito, quindi, mi chiedo, possibile che sia così ingenua da approdare da noi con un libro scadente? I casi sono due: o ci reputa un popolo di cretini o è molto furba. Io opto per la seconda. Chi le sta dietro ha capito perfettamente che in Italia l’EAP è visto come la sabbia negli occhi, l’editoria tradizionale è un po’ “strana”, mentre col self si va di lusso. Le “migliaia di copie vendute” spesso sono solo nella testa di qualcuno e servono come specchietto per le allodole (vedasi i misteriosi algoritmi di Amazon e altri siti dedicati alla vendita di libri).
    Detto ciò, mi dolgo di non essere riuscito a scaricarlo gratis in tempo (se qualcuno ce l’ha, me lo manda?), mai lo comperò e valuterò bene prima di comprare dei self, sia che arrivino dall’estero, sia nostrani, perché su un punto non sono d’accordo con l’amica Cetta, ossia sul fatto che si deve puntare con priorità alle opere e al self italiano.

    (Scritto in fretta, passatemi i refusi)

    • Io l’ho scaricato, ma è sul Kindle e non so come passarlo, caro Stranoforte. Che lei sia furbetta è ovvio, e pure esperta di marketing (visto che il suo lavoro era quello). Sui numeri del mercato del self italiano, a parte gli algoritmi di Amazon che ormai conosciamo bene, sono abbstanza certa per conoscenza diretta. La mia provocazione sul dare priorità al selfpublishing italiano era in risposta a questa “invasione” straniera. Certo è che se i lettori non li avvisa nessuno saremo sempre a “carissimo amico…”. Mi piacerebbe spezzare questo girone dantesco.

  6. Salve a tutti,
    scusate se mi intrometto nella discussione vorrei esprimere dei concetti, alcuni dei quali convergono col nocciolo della discussione e col post di Cetta, alcuni dei quali divergono.
    Sono in rete dal 2006, sono presente in vari “reti sociali” (dovrei dire “social network” ma ho una certa orticaria per i prestiti dall’inglese) e sono autore di libri dal 2007, grazie a Lulu, dopo 1 tentativo di pubblicare 1 mio libro con 1 casa editrice (l’uso reiterato del numero in cifre è voluto).
    Io non scrivo per avere successo o per guadagnare ma per migliorare il Mondo, tanto è vero che tutti i miei libri ad eccezione di 1, il 1°, sono disponibili in versione virtuale gratuitamente.
    Ma è tutto inutile. Paradossalmente ho venduto di più del 1° libro che degli altri che sono gratuiti. Forse dipende da quello che scrivo, il 1° libro è un saggio e gli altri sono trattati. Forse dipende da come scrivo (potrete giudicare anche da questo breve testo), forse dipende dal fatto che non faccio pubblicità (o marketing) aggressiva o forse dipende dal fatto che il self-publishing (o auto-pubblicazione) in Italia non ha mai veramente sfondato e non sfonderà, perché l’Italia è un Paese di “forti” scrittori e “deboli” lettori. E perché alcuni (o molti) scrittori di auto-pubblicazione non curano l’impaginazione (per non dire dell’ortografia) gettando discredito sugli altri.
    Ho inviato il mio 1° libro a vari politici, giornali ed autorità dal 2003 (allora era ancora un progetto “smilzo”) ma inutilmente. Forse il Mondo non vuole essere cambiato in meglio o forse non ne ha bisogno, d’altronde ora le cose vanno così bene…
    Sopra è stato detto che gli “auto-pubblicati” italiani sono mediocri (tra l’altro lo dice un “auto-pubblicato”, quindi andiamo bene), ma se penso che i VIP sfornano biografie in giovane età del tutto inutili o capolavori come “Tutte le barzellette su Totti” (con tutto il rispetto per Totti come calciatore), mi sembra che la mediocrità sia piuttosto diffusa.
    Perché scrivo questo sfogo (che sicuramente sarebbe considerato sbagliato da un esperto di marketing)? La risposta è semplice: da qualche giorno ho voglia di abbandonare la rete come presenza attiva.
    Comunque poco male: nessuno piangerà la mia assenza, una voce mediocre in meno.
    Cordiali saluti,
    Michele

    • Caro Mikelo, sei leggermete OT, nel senso che il mio post parlava d’altro, non del cattivo mondo dell’editoria. Hai fatto un po’ di marketing sul mio blog, vabè passi, ma il fatto che tu annunci qui di voler abbandonare il web che c’entra?

  7. Cara Cetta,
    Seguo la regola d’oro di “non fare agli altri ciò che non vorresti venisse fatto a te” e rispondo, anche se non sono disposto ad un dialogo prolungato.
    In primo luogo non penso di aver fatto “pubblicità” perché di solito si fa pubblicità mostrandosi sorridenti e vincenti, non lamentandosi come ho fatto io.
    In secondo luogo non ho “annunciato” di voler abbandonare la “Rete” ma ho solo detto che ci sto pensando (o meglio letteralmente “ne ho voglia”); se e quando lo farò davvero, lo farò e basta senza proclami, grosso modo come ha fatto un mio conoscente e collega scrittore qualche tempo fa.
    In terzo luogo non sono andato così “fuori tema” almeno implicitamente; esplicito quel che era rimasto “in punta di tastiera”: l’ “auto-pubblicazione” ha dei seri problemi già ora (come hai scritto correttamente tu urge una “rinascita”), gli “auto-pubblicati” stranieri non la miglioreranno certo, ma neanche la peggioreranno più di tanto. A me non sono mai piaciute le chiusure nazionalistiche né verso gli immigrati “poveri”, né verso i “più ricchi” scrittori auto-pubblicati.
    Certo non sono neanche esterofilo: in ambito linguistico preferisco nettamente i calchi ai prestiti, dal punto di vista artistico sono concorde con quanto ha sentito una volta in un telegiornale Rai che l’Italia possiede metà del patrimonio artistico mondiale (anche se crescendo mi sono chiesto come hanno calcolato questa percentuale) e dal punto di vista culinario/ enogastronomico penso che la cucina italiana, nelle sue varianti regionali, sia la migliore di tutti. Tuttavia coloro i quali preferiscono un libro straniero solo perché straniero non sono “esterofili” ma stupidi, perché la vera esterofilia è il cosmopolitismo: trattare qualsiasi essere umano (anche riguardo al suo lavoro) alla stessa maniera al di là della razza o etnia, pur mantenendo ben salda la propria identità.
    Spero di aver chiarito il mio pensiero sulla questione “auto-pubblicati” stranieri e di non esser andato troppo “fuori tema” spiegando il retroterra (o “background”) da cui nasce la mia posizione.
    Cordiali saluti,
    Michele

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