Oggi che sono figlia

Ancora mi strizza il cuore il ricordo di te, e certi giorni è così forte che ti chiamo, ti chiamo e ti supplico di rispondermi. Vorrei raccontarti tante cose Mariù, vorrei telefonarti domattina, che è domenica e chissà cosa prepareresti di buono per pranzo.

Vorrei dirti che questo anno è migliore per me, vorrei sentirti ringraziare il cielo per questa nuova terapia, vorrei sentirti dire “dai che ce la fai”. Non sei andata via, non finché sarai viva dentro di me, nelle mie orecchie che ancora sentono la tua voce.

A volte mi sento ancora quella adolescente che tornava da scuola e si chiudeva in camera ad ascoltare Baglioni. Poi entravi tu, ti sedevi sul letto accanto a me e mi chiedevi di dirti tutto, che lo potevo fare, che tu eri “moderna”. E io lo facevo e fingevo di non vedere il tuo sguardo imbarazzato, fingevo di non sentire la tua voce arrochita: tu volevi sapere di me e io solo a te potevo raccontare dei primi baci, le prime sensazioni, i primi amori.

Vorrei dirti oggi che non ho paura, oggi che gli anni miei superano i tuoi di quando ero ragazza, oggi che mi guardo allo specchio e un po’ ti somiglio, oggi che sono forte perché tu mi hai resa così, oggi che sono ancora figlia e tu mi manchi, mamma.

Estate dolce e amara

Ci sono estati che scivolano via lente, come le gocce di sudore, e poi di colpo, a fine agosto, si spengono in un rigurgito di sole oscurato dalle nuvole. Eppure io la amo lo stesso questa stagione intensa. Qualcuno potrebbe obbiettare che allora non si spiegano le mie lamentele sul troppo caldo, sulle notti insonni, sugli insetti: io non ho detto che l’estate sia perfetta.

Quest’anno casetta mi ha accolta bene, non come lo scorso anno che pareva riottosa ad avermi fra le sue quattro mura. Ha già il mio odore impresso nei suoi tanti angoli nascosti, il mio tocco, i miei colori, eppure ogni tanto Mariù fa capolino – c’è ancora il suo mazzo di carte da Burraco sul comodino – come una gif che si ripete, si ripete…

Temevo di non farcela a uscire, camminare, arrivare a piedi fino al mare e nuotare, nuotare, perdermi in quel blu lasciando i pensieri altrove, e invece ce l’ho fatta. Mi piace alzare l’asticella delle sfide con me stessa. La mia Calabria mi risana sempre, come se ogni ogni ritorno fosse una rinascita e riscoprissi per la prima volta i profumi intensi, i sapori forti, la luce, quella luce violenta che rivela tutto, anche l’anima.

All’inizio dell’estate è stato pubblicato un libro che, scopro oggi, dopo due mesi è già in ristampa: Calabresi per sempre, edito da Edizioni della sera. Si tratta di un’antologia di racconti nella quale scrittori calabresi rivelano in forma narrativa il loro legame con questa terra aspra e dolcissima, forte e fragile, un ossimoro o una contraddizione che pure si accettano proprio perché la Calabria è così, diversa non la vogliamo. C’è anche un mio racconto in questa antologia, si intitola “Cenere” e in questo post di fine agosto vi regalo l’incipit. L’invito è di andare in libreria – ovunque, non solo in Calabria – e di acquistare una copia del libro e leggerlo. Chissà, magari imparerete a conoscerci meglio, magari riuscirete anche ad amarci.

C’era un momento preciso che si ripeteva uguale a sé stesso ogni volta che andavo a Cirò: quel tuffo al cuore, quella sorta di eccitazione incontrollata che mi assaliva non appena voltavo a destra sulla statale 106 all’altezza di Sibari. La “strada della morte” era per me la strada della vita, perché da lì in poi potevo rinascere. Che fosse estate o inverno poco importava, in quel punto esatto del viaggio aprivo i finestrini e l’abitacolo si riempiva di mare, di odori densi, di vegetazione aspra come gli agrumi della piana e quei colori intensi del mare e del cielo facevano quasi male agli occhi, tanto da farli lacrimare. O forse era proprio un pianto liberatorio. Si può piangere quando l’anima torna a casa.

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La signora allo specchio

La signora è stanca. Guarda il telefono che resterà muto; anche se dovesse comporre quel numero mai cancellato nessuna voce dall’altra parte. Da tempo ormai non suona neanche più libero: il numero da lei composto non esiste, e tutto si riduce a questo, si esiste solo se altri ti definiscono come esistente.

La signora è stanca e sola me esiste. Si accarezza il corpo nudo, ne percorre le asperità e le ingiurie con la punta delle dita, segue i solchi più profondi, quelli lasciati da una mano amica e salvifica, quei bordi netti e precisi da lama affilata. Lei stessa è quei bordi, lei stessa è quei solchi, lei è la memoria di ciò che poteva essere e non è stato.

La signora è stanca e sola ma esiste in quei solchi. Guarda quel corpo che ormai è solo un contenitore e pensa che nessuno mai, nessuno mai più lo amerà come un tempo, nessuno troverà bellezza in quelle curve trasformate, in quella pelle così liscia da sembrare di seta, in quei muscoli allentati, come se dormissero. Eppure lei esiste lì dentro, eppure lei è viva lì dentro.

La signora è stanca e sola, esiste nel suo corpo che è involucro e pensa che non importa quanto possa essere diversa agli occhi del mondo perché in realtà è più bella di prima, in realtà quei muscoli allentati portano la fatica di vivere e la gioia di riuscirci ogni giorno. Ci sono sorrisi nascosti, unici, preziosi, che regala a sé stessa ogni giorno e si compiace. Nessuno mai, solo lei…