Edgar e me #Cap. 1

Non esistono relazioni perfette. Le migliori sono sempre frutto di un compromesso, e il nostro rapporto non è neppure da considerare una scelta. Un’imposizione, di questo si è trattato, e ora dobbiamo farci i conti, tu ed io. Il fatto che tu ti consideri il padrone metterebbe me, per contrapposizione logica, nel ruolo di serva. No, non funziona così, patti chiari da subito. E non m’incanti con quello sguardo languido del mattino, appena sveglio, che mi fissi come se volessi imporre la tua volontà telepaticamente. Lo so cosa vuoi da me, ma ci sono delle regole da rispettare, almeno adesso che dobbiamo forzatamente convivere. Noi non ci amiamo, diciamo la verità. Però stiamo imparando a rispettarci. Tu hai il compito di farmi compagnia, io quello di prendermi cura di te. E lo faccio. E ci parlo anche con te, che per tutta risposta mi volti le spalle e ti addormenti. Quando non ti prendi la briga di andartene a zonzo, di sparire, senza neanche lasciare, che so, un avviso, un’impronta di te che mi faccia capire che stai bene. Però torni, sempre, e questo dovrebbe farmi capire qualcosa, ma ancora non so cosa. Ti servo, ti sono in qualche modo utile. Va bene, è pur sempre un inizio. Il bisogno a volte unisce più del desiderio. Arriverai ad amarmi, ne sono certa.

Edgar

Edgar

Ma un libro, in fondo, cos’è? #Libro

Immagine presa da qui

Immagine presa da qui

Ma un libro in fondo cos’è? Me lo domandavo prima, da lettrice curiosa, quando provavo a immaginare tutto ciò che c’era dietro al lavoro di scrittura. Me lo domando adesso che a scrivere sono io.
Analizziamo le diverse risposte possibili.

  1. È un’opera dell’ingegno. Così dovrebbe essere almeno, l’espressione fisica e tangibile di un talento.
  2. È un bisogno di emergere. Così è per molti, gli invisibili, quelli che per volontà propria o per carenze di altro genere sono relegati ai margini (della società reale o virtuale?).
  3. È una necessità. Quella di esprimersi in modo diverso a volte. Quella di trovare condivisioni altre. Spesso è la necessità di combattere le proprie solitudini, di esorcizzarle.
  4. È il desiderio di esprimere un concetto, un pensiero. Come se scrivendolo questo possa acquisire forza, autorevolezza. Verba volant, scripta manent.
  5. È un’operazione commerciale. Eh sì, può essere anche questo. Penso a tutti quei libri pubblicati al solo scopo di fare cassetta, che si tratti di autori (?) o case editrici.

Sono solo alcuni degli esempi possibili. Credo che quando avrò terminato questo articolo me ne verranno in mente almeno altrettanti, e lo stesso varrà per chi mi legge.
Il problema è che noi tutti scriviamo, sempre. Abbiamo cominciato quando, ancora infanti e puri, ci hanno raccontato la meraviglia delle parole, che non sono solo da dire. Abbiamo imparato la scrittura assieme alla lettura. Che magia! Ancora lo ricordo quel primo momento della comprensione. Nel tempo poi si perde quello stupore, e scrivere, come leggere, diventa una routine, una capacità acquisita, come mangiare, bere, respirare.
Ecco, credo che lo scrittore, quello vero, conservi intatto lo stupore del bambino. E allora il suo libro è il suo mondo incantato, quello in cui tutto può avvenire, e la scrittura è solo il mezzo con cui tutti gli altri possono decifrarne i simboli e ritrovare, magari, la meraviglia che un giorno lontano li aveva appassionati.
Mettiamola così. Un libro è l’incontro di due mondi, quello dello scrittore e quello del lettore, che in quello spazio neutrale, tra quelle pagine che prima erano bianche, ritrovano la loro dimensione congiunta e fantastica. Un libro è un bambino che sogna.