Estate dolce e amara

Ci sono estati che scivolano via lente, come le gocce di sudore, e poi di colpo, a fine agosto, si spengono in un rigurgito di sole oscurato dalle nuvole. Eppure io la amo lo stesso questa stagione intensa. Qualcuno potrebbe obbiettare che allora non si spiegano le mie lamentele sul troppo caldo, sulle notti insonni, sugli insetti: io non ho detto che l’estate sia perfetta.

Quest’anno casetta mi ha accolta bene, non come lo scorso anno che pareva riottosa ad avermi fra le sue quattro mura. Ha già il mio odore impresso nei suoi tanti angoli nascosti, il mio tocco, i miei colori, eppure ogni tanto Mariù fa capolino – c’è ancora il suo mazzo di carte da Burraco sul comodino – come una gif che si ripete, si ripete…

Temevo di non farcela a uscire, camminare, arrivare a piedi fino al mare e nuotare, nuotare, perdermi in quel blu lasciando i pensieri altrove, e invece ce l’ho fatta. Mi piace alzare l’asticella delle sfide con me stessa. La mia Calabria mi risana sempre, come se ogni ogni ritorno fosse una rinascita e riscoprissi per la prima volta i profumi intensi, i sapori forti, la luce, quella luce violenta che rivela tutto, anche l’anima.

All’inizio dell’estate è stato pubblicato un libro che, scopro oggi, dopo due mesi è già in ristampa: Calabresi per sempre, edito da Edizioni della sera. Si tratta di un’antologia di racconti nella quale scrittori calabresi rivelano in forma narrativa il loro legame con questa terra aspra e dolcissima, forte e fragile, un ossimoro o una contraddizione che pure si accettano proprio perché la Calabria è così, diversa non la vogliamo. C’è anche un mio racconto in questa antologia, si intitola “Cenere” e in questo post di fine agosto vi regalo l’incipit. L’invito è di andare in libreria – ovunque, non solo in Calabria – e di acquistare una copia del libro e leggerlo. Chissà, magari imparerete a conoscerci meglio, magari riuscirete anche ad amarci.

C’era un momento preciso che si ripeteva uguale a sé stesso ogni volta che andavo a Cirò: quel tuffo al cuore, quella sorta di eccitazione incontrollata che mi assaliva non appena voltavo a destra sulla statale 106 all’altezza di Sibari. La “strada della morte” era per me la strada della vita, perché da lì in poi potevo rinascere. Che fosse estate o inverno poco importava, in quel punto esatto del viaggio aprivo i finestrini e l’abitacolo si riempiva di mare, di odori densi, di vegetazione aspra come gli agrumi della piana e quei colori intensi del mare e del cielo facevano quasi male agli occhi, tanto da farli lacrimare. O forse era proprio un pianto liberatorio. Si può piangere quando l’anima torna a casa.

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Cetteide Revolution #cp10 Summer is here

Ancora insieme, stessa casa, stesso mare, stesso cielo stracolmo di stelle. Agosto significa io e mamma, e dopo un anno esatto ci ritroviamo qui, a Cirò, ventitré anni di differenza e due caratterini impepati, a farci compagnia. Certo, siamo un po’ ammaccate tutte e due, ma sembrerà strano, proprio in questa nostra fragilità troviamo la forza e il coraggio per andare avanti.

Mamma è arrivata prima di me, ha fatto da apripista. Fare da apripista significa che ha avuto dieci giorni di tempo per stressare il pescatore delle sei del mattino, fare scorta di pipi jiuschenti, friselle e pane di casa, e prepararmi il divano letto:
– So che tu non lo vuoi aperto, allora ho pensato di renderlo più comodo. Ci ho messo un altro materasso, due cuscini e la biancheria fresca fresca di bucato.
– Ma così cado, ma’. Non lo vedi che il materasso di sopra è più largo di quello di sotto? Scivolo…
– Ma no che l’abbiamo provato!
Ho trascorso una prima notte da incubo, terrorizzata all’idea di ritrovarmi spiaccicata per terra e senza nessuno a soccorrermi, avvolta in lenzuola – sì, di cotone – scure e opprimenti, soffocata da due cuscini alti mezzo metro.
Il mattino dopo.
– Cetta, ti sei agitata stanotte. A un certo punto sono venuta di qua e c’era il computer acceso. Te l’ho detto, che ti rovini la salute con quel coso in faccia…
Mi rovino la salute. Ho spogliato il divano, eliminato doppio materasso, cuscini e lenzuola a fiori esotici e mi sono sentita più fresca.
– Perché non dormi con me?

Il caldo asfissiante, come ritrovarsi su un braciere sia di giorno che di notte, ci ha fatto decidere che “in spiaggia è meglio”. Ora, ovviamente io avevo cominciato all’alba del giorno dopo ad andare in spiaggia, perché amo le ore in cui il mare ancora sonnecchia – e pure tutti gli abitanti e villeggianti di Cirò – e perché con la mia terapia il sole pieno era da evitare. Portare mamma in spiaggia era tutto un altro discorso. Ho noleggiato una macchina.
– Anche io voglio venire di mattina presto, che non posso prendere il sole. Prendiamo un ombrellone, una sdraio e tu mi lasci lì a vai a farti le cose tue.
Questa faccenda, “farti le cose tue”, pare quasi una roba imbarazzante, un po’ intima, un po’ erotica, da tenere nascosta.
– Io un bagno mi faccio, ma’. Forse due. Quali cose mie?
– E questo intendevo! Non farmi dire troppe parole che mi stanco.
Come due cospiratrici ci siamo messe in macchina per tre mattine di seguito alle 7:30, siamo arrivate al Lido, lo abbiamo aperto, sono stata il bastone di mamma e l’ho messa a mollo, come una regina sul trono. L’ho vista felice sbattere i piedi nell’acqua, ricevere il massaggio della risacca, sospirare al sollievo per le sue gambe malconce. L’ho vista felice da piangere, e ho mischiato le lacrime all’acqua di mare per non farlo vedere.

Io e lei sulla passerella mentre scendiamo faticosamente a riva.
– Devo farti vedere un film, ma’.
– Quale film?
– Non guardarmi, non ti sento.
– E di che parla?
– Fa ridere, ma’. Parla di un sordo che fa da guida a un cieco. In questo momento noi somigliamo a quei due.
– E c’è su YouTube?
La faccenda di YouTube va spiegata. Risale ormai allo scorso anno, sempre agosto, quando a un certo punto le ho detto che io le mie serie tv me le guardavo in streaming sul computer. Sì, le ho anche spiegato cosa è lo streaming, ma questa è un’altra faccenda. Lei si guarda “Il segreto” da anni, appuntamento imprescindibile ovunque si trovi, qualunque cosa stia facendo. Quello che ha capito dello streaming è che io riesco a guardarmi gli episodi delle serie tv in anticipo rispetto alla messa in onda ufficiale. “Quindi mi posso vedere anche Il Segreto?” Mi ha costretta a cercare la serie ovunque e ho trovato diversi episodi su YouTube, ma in lingua originale, lo spagnolo. Beh, se li è guardati tutti, e ha anche capito tutto. Quindi per lei ora YouTube è la fonte di ogni cosa.

– Mamma, ti faccio vedere i video del concerto del nuovo gruppo di Francesca.
– Bello! Però non li capisco molto. Che lingua parlano?
– Inglese ma’.
– E fammene vedere un altro…
Metto un altro video dello stesso concerto. I cinque sono sempre nella stessa posizione e cantano ancora in inglese.
– Ma questo già me lo hai fatto vedere! Non hai qualcosa su YouTube?
Appunto…

Mamma parla quest’anno. Di giorno, di notte, con me, con sua madre, con suo fratello. Con me fa lunghi discorsi che nel sonno diventano fitti conciliaboli incomprensibili, interrotti solo dalle visite al bagno o al frigorifero.
– Tu non dormi bene la notte. – mi dice. Io.
Di giorno mi racconta del passato, delle cose di famiglia, di quello che vuole fare appena torniamo. Vuole comprare un fornetto al cimitero, per babbo e per lei.
– Ma mamma, quando sarà non ci entrerai nel fornetto! Vuoi essere cremata?
– Non sia mai! Cenere alla cenere, polvere alla polvere, così dice il Signore! Ne prendo uno grande, matrimoniale.
Abbiamo parlato molto della morte, della fede, delle sue preghiere preferite. Il pomeriggio, quando l’afa ci prende alla gola e in due ci scoliamo quattro bottiglie d’acqua, lei stremata sul letto, io sfatta sul divano, le gambe sollevate, il ventilatore a duemila, mamma mi recita la preghiera del “suo angioletto”, mi racconta di certi personaggi di paese e poi mi interroga.
– Perché lui era “ncionante”.
– Era cosa?
– Non lo sai che significa ‘ncionante?
– No ma’, non lo so.
– Ma come non sai che significa ‘ncionante?
– Con tutta la buona volontà ma’, neanche per assonanza ci arrivo.
– No assonanza, ‘ncionante! Come te lo spiego? Quello che mette zizzania, ecco!
Neanche in due vite…

Dopo tre giorni di mare al mattino e alla sera, ha deciso che al mattino fosse meglio di no. La realtà è che si è bruciata le gambe con l’acqua salata – o forse mettersi in moto così presto non le va – e quindi mi ha lasciata libera. Però si sveglia all’alba con me e chiacchiera, chiacchiera… canta anche. Io l’ho sentita cantare altre volte, canzoncine per bambini, brevi strofe o ritornelli, ma mai come stavolta.
– Cetta, ti posso cantare una canzone?
– E certo che puoi!
E mi ha lasciata senza fiato. Con voce limpida, un bel vibrato, ha cantato una canzone che ascoltava da sua madre, negli anni ’40, quando erano sfollati in campagna. Una canzone che parla di sentirsi al sicuro e felici per l’orto, il frutteto, il focolare davanti al quale riunirsi nelle fredde sere d’inverno. L’ho registrata, ho scattato una foto col cuore.

Per il mio compleanno mi ha invitata a pranzo fuori. Siamo andate in una trattoria famosa, L’Aquila d’oro, che ha ricevuto una chiocciola nella famosa guida Slow Food Osterie d’Italia – andateci, ne vale assolutamente la pena – perché si mangiano “le cose di casa di una volta” e “perché sono parenti.”
– Ma come sono parenti, ma’?
– Si chiamano Cariati, come me.
– Ho capito, ma non è che puoi essere parente con tutti i Cariati del mondo!
– Primo, l’ha detto la proprietaria che siamo parenti, quando ci siamo incontrate la prima volta. Secondo, fino alla settima generazione ricorda, la settima!
Penso a tutti i De Luca sparsi per il mondo, compreso Erri lo scrittore. Cugini, facciamo una bella rimpatriata, vi va?

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Però che cosa straordinaria questo sentirsi famiglia ovunque, appartenere a un clan, a un’identità comune. Non si è mai soli così. Al Nord non mi pare funzioni allo stesso modo, chissà perché. Magari qualcuno vorrà spiegarmelo, magari c’è una ragione storica per cui la gente del Sud rimane così fortemente ancorata alle proprie origini. E quanto amo tutto questo, quanto mi fa sentire libera e al sicuro…
– Mamma io riparto, devo fare l’ultima terapia.
– L’ultima… così poi festeggiamo.
Le guerriere si guardano negli occhi, la luce della sera addolcisce le curve dei volti, le voci si abbassano fino a diventare sussurri. Il vento caldo ci accarezza e lascia sulla pelle il sapore del mare.

 

Cetteide Revolution #cp1 The beginning

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Agosto 2016, la rivoluzione ha inizio.

“Mamma, torno giù!” Ovviamente “giù” significa Italia/Calabria/Sud, significa tornare a casa dopo l’esperienza tedesca, significa andare da mia madre. Che non sta bene, quindi mi prenderò cura di lei. Sì, è vero, ci sono anche le altre sorelle, ma io sono la più grande, no?

“Meno male, così mi fai compagnia… ci dormi nel letto grande con me?” Ogni volta la stessa richiesta e ogni volta devo gentilmente declinare l’invito. “Mamma, no.” Più gentilmente di così non posso, non con lei.

Mamma sta male sul serio, cioè non si tratta di un disturbo dell’età o qualcosa che si cura con il cibo e qualche pillolina. Per fare l’esame diagnostico l’hanno ricoverata in una clinica convenzionata, la stessa dov’è nata mia sorella trentotto anni fa, e non è che sia poi cambiata di molto. Giusto il reparto diagnostico.
“Cetta, non hai capito, ce l’ho dovuto dire io a quella scippecchiante come doveva pulire. Che pensava di cavarsela con una leccatina di gatto!” “Ma in che senso gliel’hai detto tu?” “Mi sono alzata, le ho preso lo spazzolone dalle mani e le ho fatto vedere il battiscopa. Lì, vedi? Le ho detto, lì devi strofinare. S T R O F I N A R E! Che quella è straniera e non mi capiva.” “Ah, quindi per questo hai urlato, così ti capiva meglio…”
“E certo! Che io me la so cavare, che ti credi. Poi non ti dico che mi hanno fatto mangiare… gli ho detto che quel brodo lo potevano dare alle galline!” Il fatto è che mia madre è rimasta ancorata a un’idea degli ospedali del Sud, in cui il catering è un optional, nel senso che qualunque sia il menu prescritto dal medico e fornito dalla mensa, il cibo lo portano i parenti da casa. “Sì mamma, ma tu non puoi mangiare come ti pare. Ti hanno fatto una colonscopia.” Mi ha guardata di traverso. “E allora? Proprio per questo, no?” Fine della discussione.

Mamma sta male, ma i pranzi domenicali, i pranzi estivi con i nipoti e le figlie, i pranzi insomma non possono mancare. Così si curano le malattie da noi, con la vita che scorre sempre uguale, con i riti immancabili, con la famiglia che ti gira intorno. E agosto è stato così giù in Calabria, una girandola di parenti in visita e una grande attrice che entrava in scena ogni volta. Specie al telefono.
Io e lei in macchina, di ritorno dalla gelateria in riva al mare dove ci siamo strafogate un gelato artigianale strepitoso. “Sicura che potevi mangiarlo?” “Ma figurati! Sto benissimo…” Squilla il suo telefono. “Pronto? Eh, cià, eh…” immaginate il respiro un po’ affannato e la voce spezzata, “eh… come va… così… un po’ bene, poi i dolori, eh… speriamo il Signore mi aiuta… eh no, non ci voleva proprio…” E così via per una buona decina di minuti. La guardo sconcertata al termine della telefonata. “Mamma! Mi spieghi perché fai così? Prima sei tutta pimpante e poi con gli altri insceni questa farsa? A che scopo?” “Perché gli altri non lo vedono, il male, e allora non ci credono. Tu glielo devi far capire…”

C’è tutta la tradizione della tragedia greca dietro queste parole, c’è il lamento delle prefiche ai funerali, c’è la teatralità passionale delle donne del Sud, ma c’è soprattutto una verità assoluta: gli altri non lo vedono il male, quindi non ci credono. E se vuoi supporto, se vuoi simpatia, se vuoi aiuto, devi mostrare la tua sofferenza, il tuo dolore, la tua fragilità. Il fatto è che sta per accadere qualcosa, qualcosa che né io né lei potevamo prevedere: sto per entrare in scena anche io.

Se ti è piaciuto questo primo episodio delle nuove avventure di Cetteide commenta pure qui sotto e continua a seguirmi per conoscere il seguito. “Sfogliando” il blog potrai trovare una pagina dedicata alla prima raccolta della serie… Buona lettura!