
Jean Delville – L’amore delle anime – Immagine presa da qui
In una sera di marzo una domanda del genere ne alimenta altre. Come un’onda lunga. Nel preciso istante in cui pensi di aver trovato la risposta, quella giusta, quella che mette il punto e a capo, premono alle spalle della tua coscienza le altre, quelle riflesse. Cosa significa appartenere? E il desiderio di libertà? Ma non era un diritto?
Sono molti i modi in cui si può rispondere, o anche tacere. Ma l’urgenza delle domande che si accatastano nella mente non aiuta il silenzio. Nel Sud Italia, quando ci si presenta a qualcuno, l’interlocutore fa sempre la domanda di rito, specie nei paesini :”A chi appartieni?”. E qui l’appartenenza è provenienza, un modo per essere identificati, per essere inseriti in un contesto di famiglia allargata di cui si conservano le caratteristiche, le peculiarità, perché il DNA familiare si trasmette. È rassicurante sapere prima “a chi si appartiene”. Aiuta nella conoscenza successiva, accelera i tempi della socializzazione. E con quanta fierezza si risponde! Anche i nostri emigranti lo facevano. Nei sobborghi cittadini, in altri luoghi del mondo, quando la fatica quotidiana partiva già dall’aprir bocca e dal comprendere un linguaggio nuovo, il senso di “appartenenza” a una stessa comunità ci faceva sentire meno soli.
Ma la domanda era molto più specifica e diretta. Chiedeva di un rapporto “one by one” , una riflessione sul nostro personale sentire, non su un fenomeno sociale e collettivo. E allora ognuno può rispondere solo per sé, non c’è una regola.
Molte donne hanno risposto di sentire un’appartenenza reciproca col proprio amato. Altre di sentire questo sentimento nei confronti dei figli. Altre ancora sentono di non appartenere a nessuno se non a sé stesse. Sto parlando di donne. Nessun uomo si è fatto avanti…
E’ strano il web. Avvicina e allontana in un attimo quando si affrontano certi argomenti. Divide immediatamente i generi: le femmine qui e i maschi di là. Perché, diciamolo, siamo noi donne che tendiamo sempre verso l’altro o ce ne allontaniamo, padre, figlio o amato che sia. Siamo noi che lo facciamo lo sforzo di “muoverci” in una direzione diversa dalla nostra, per incontrare in un abbraccio. Muoverci. E’ una prerogativa femminile, e non c’è colpa nel restare fermi. Io ci ho provato a farlo, a restare ferma. Non è successo nulla, non si è avvicinato nessuno. Perché non posso cambiare le regole della natura e soprattutto non posso andare contro le mie pulsioni. Credo abbia a che fare con l’istinto materno.
Ma qui si parla di “appartenere a qualcuno”, quindi l’argomento è intimo, profondo, viscerale. L’ho provato questo senso di unicità. Più di una volta. E’ normale sentirsi così quando ci si innamora, quando si progetta il futuro in due, quando la vita ci regala giorni, ore, minuti insieme, uno sull’altro, come mattoni di una casa che pian piano ci racchiude al suo interno. E allora senti di appartenere a tutto questo assieme a chi lo condivide con te, e non potresti mai farne a meno, potrebbe mancarti l’aria al solo pensiero. Io l’ho provato tutto questo, e in quel momento mi sentivo forte e invincibile.
Poi succede che finisce, perché succede purtroppo. E allora ti dici che “mai più” vorrai appartenere a qualcuno, che “mai più” ti abbandonerai così, “mai più” ti fiderai in questo modo. Anche questo è normale, come il fatto che prima o poi tutto ricomincia.
Allora forse è il concetto che è sbagliato. Il concetto di appartenenza. Nella coppia lo assimiliamo troppo a quello di possesso e non riusciamo neppure a concepire l’idea che ciò che possediamo possa non essere più nostro. E anche questo concetto è esasperato ed esasperante, perché si “possiede” un oggetto (forse), di certo non una persona.
Lo avevo detto. Una semplice domanda in una sera di marzo ha scatenato uno tsunami di punti interrogativi, e vorrei tanto cancellare tutto, fare un reset, ma la mia voce interiore continua imperterrita.
Hai mai sentito di appartenere a qualcuno?
Sì, ho sentito forte la sensazione di un’unione che andava oltre la carne, oltre l’anima, oltre lo stesso gesto del respirare per vivere. E sono morta dentro quando è finito. E poi ho capito, almeno per quanto mi concerne, che la sensazione più bella, unica, meravigliosa, è quella di sapere che appartengo solo a me stessa e che quando amo posso donare una parte di tutto questo all’altro, un prestito condiviso, per il tempo che sarà.
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