Viaggio a Copenhagen, isola felice.

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Questo è uno strano anno di viaggi lampo. E il più rapido in assoluto è stato quello appena concluso, a Copenhagen. Sinceramente nella mia vita non avevo mai detto “Un giorno andrò in Danimarca”, e non perché lì ci sia del marcio, ma per il fatto che il nord Europa non mi attrae particolarmente. Questione di clima, di luce, di affinità. Ma ora c’è un pezzo del mio cuore lì, un pezzo della mia vita, e allora ho deciso di farci “letteralmente” un salto: quarantotto ore per vedere il mare più a nord che abbia mia visto. E mia figlia.

Ci si può innamorare di Copenhagen, a prima vista, come un colpo di fulmine. Perché è bella, coi suoi canali che ricordano Venezia, con le sue case colorate, con i barconi attraccati alle banchine come ad Amsterdam, con le sue strade senza traffico, con il centro che si gira a piedi in poche ore, con i profumi, l’odore di salmastro, la luce che no, proprio non se ne vuole andare… siamo in giugno, e il giorno dura almeno venti ore. Venti ore di tempo per guardare gente bellissima, ma bellissima davvero e che sembra felice, rilassata. Dico sembra perché non li conosco, ma mi dicono dalla regia che in questa città del nord è proprio così, non c’è stress, tutto è organizzato, pianificato per rendere la vita semplice. E semplice è anche trasgredire. Così tanto che nessuno si stupisce, nessuno giudica, nessuno storce il naso. Va bene, d’inverno è dura col buio che ti accompagna per diciotto ore, col vento tagliente che ti morde la pelle perché non ci sono montagne o colline a fare da barriera e lui arriva giù dal Polo Nord come una cascata di ghiaccio, col cielo sempre grigio, le nuvole così basse da schiacciarti, claustrofobiche, opprimenti. Si sta al chiuso il più possibile, la gente si veste di nero, la metropolitana è presa d’assalto.

bluehouse2Poi però arriva la primavera (l’estate no, non fa mai abbastanza caldo), e tutto fiorisce: i parchi, le finestre, le persone, le biciclette, le barche, i suoni, gli amori. La Danimarca si sveglia dal letargo e si anima. Tutto questo ovviamente non l’ho vissuto in prima persona, ma dai racconti di mia figlia e dei ragazzi che condividono con lei la casa, gli umori, i sogni. Ecco, sembra che in questa città si possa davvero ancora sognare. E non parlo delle favole alla Andersen (a proposito, la Sirenetta non sono andata a vederla), ma della possibilità di realizzare qualcosa nella vita, di immaginarsi un futuro. Copenhagen è stimolante, creativa, aperta a chi ha voglia di mettersi in gioco, ha idee, vuole sperimentare. Una città giovane, non solo anagraficamente. Una città “futura”.

Eppure, in mezzo a tanto futuro, c’è un sapore così vintage, così hippy, che mi è sembrato di fare un balzo indietro nel tempo, agli anni settanta e anche prima. Nel cuore di Christianshavn, il quartiere dove vive mia figlia nella Blue House (poi vi racconterò di questa casa), c’è Christiania, la città libera. Una volta era una base navale militare, con capannoni, edifici di servizio, magazzini in disuso, e doveva essere tutto raso al suolo. Un gruppo di “hippies” anarchici e pacifisti aveva però occupato gli spazi e ci sono stati dei tafferugli, per cui l’amministrazione locale ha deciso di lasciar loro tutto il quartiere che, attualmente, è ben delimitato, ha regolamenti interni solo suoi e la polizia neppure ci passa vicino. Christiania è un luogo trasgressivo, certamente, le droghe leggere circolano liberamente (quelle pesanti sono assolutamente bandite), ma è anche la culla dell’arte, della musica, del teatro, dell’artigianato, insomma della creatività a 360°. Sono entrata in un locale e c’era musica dal vivo, un duo americano in tour europeo. Mi sono seduta per terra, sul pavimento di legno, assieme ad altri giovani, e non mi sono sentita diversa o fuori posto. Ho ascoltato con Francesca i Cross Record per la prima volta, e mi è sembrato di rivivere quelle atmosfere da cantine fumose, da locali off che frequentavo un tempo, una vita fa.

L’aria era tiepida quando siamo uscite, e ancora un po’ di luce rischiarava il cammino. Abbiamo camminato vicine e fatto chiacchiere lievi. Ho respirato un po’ dell’aria che lei respira ogni giorno, e mi ha fatto bene. Ho vissuto con lei nella casa blu che sembra una barca, con dieci marinai che seguono una rotta segnata dalle stelle, e mi sono sentita accolta, un membro dell’equipaggio. Mi hanno ceduto la cambusa e io ho camminato a piedi nudi sulle assi scricchiolanti, sui gradini di sbieco delle ripide scale, ho visto il sole sorgere alle tre e mezza del mattino dalle finestre oblò di una camera senza letto. E sono stata felice.

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