Ognuno ha la sua “crisi”. L’austerity del 1973

 

 

 

Chi se la ricorda? Ovviamente mi rivolgo a un pubblico di over anche se, a parlarne oggi, potrebbe essere ancora attuale. Ho scritto questo articolo qualche anno fa per il blog di Saverio Simonelli, Inoltre, e ho pensato che in questa domenica piovosa, che il sole proprio non ce la fa a regalarci un po’ di luce in più, ci stava bene ricordare la prima vera “crisi” economica dopo il boom degli anni ’60, la prima che io ricordi almeno. E se ci penso a quanto ero giovane allora, al fatto che sin da bambina ho dovuto fare amicizia con termini così pesanti – austerità non dovrebbe entrare nel vocabolario di un bambino – mi rendo conto che la vita ci offre sfide e opportunità e che sta solo a noi saperle cogliere. Tanto le crisi ci saranno sempre.

Quel giorno mio padre disse: “Si va a piedi.” E per me che a piedi c’ero sempre andata non fu una grande novità. Che poteva interessare a me, ragazzina di tredici anni, dell’Opec, della crisi del petrolio, della guerra del Kippur? Che poi neppure lo sapevo cosa fosse il Kippur.

Mi accorsi che qualcosa era cambiato perché per strada spuntarono d’improvviso, come funghi, tante biciclette. Per strada. Come oggi in città nelle zone a traffico chiuso, che tutti camminano senza neppure guardare a destra e sinistra che tanto di auto non ce n’è. E pare una festa. Ecco, d’improvviso tutti accantonarono le severe regole sulla circolazione e si sentirono padroni dello spazio, di tutto quello che c’era. Spazio circolare, libero. Era una festa. 

In qualche posto spuntarono pure i calessi. I miei amici più spericolati (o più di tendenza), calzarono i pattini e via! Su otto ruote si va veloci, ci si sente padroni anche dell’aria. Io sui pattini non ci sapevo andare, ma poco importava, tanto non li avevo. Guardavo però con passione e desiderio le biciclette delle mie amiche. “Graziella” si chiamavano, forse per la grazia delle forme, forse perché con un nome gentile anche l’austerity pare addolcirsi. Io ci sapevo andare in bicicletta. Mi ero allenata su quella maschile di mio cugino, che neppure riuscivo a mettere i piedi in terra quando mi fermavo, e la canna mi faceva un male cane fra le gambe. E allora pedalavo in piedi. Ero brava, eh sì. Ma non avevo una bicicletta mia, tanto meno una “Graziella”. Allora lo capii cos’era quell’austerity di cui tutti parlavano. Lo capii quando mio padre, in un gesto di estrema generosità, mi regalò un monopattino rosso. Il mio tributo alla crisi fu una bici senza pedali e senza sellino.

#Emigrazione. Una giostra che gira, che gira…

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C’è differenza tra “espatriati” ed “emigrati”, eccome se c’è. Un espatriato in genere decide di andare in un luogo diverso dalla sua terra natia, di fermarsi per un po’ o per sempre, di fare impresa o carriera perché ha alle spalle solidi studi e competenze, un bagaglio linguistico appropriato, una capacità che, nel suo Paese, non riesce ad esprimere appieno e, per questa ragione, cerca opportunità altrove. I cosiddetti “cervelli in fuga” sono espatriati, ad esempio. Gli emigrati o immigrati in genere non “decidono” di andare via: sono costretti. Per necessità, mancanza di lavoro, guerre o persecuzioni, situazioni sociali disagevoli. Spesso sono persone non più giovanissime, con uno scarso bagaglio linguistico, che si adattano a qualunque cosa pur di lavorare. Ma anche ex imprenditori, ex professionisti, ex dirigenti, ex professori, tutti ex qualcosa di importante e altisonante che, magari, non sono riusciti a stare al passo coi tempi e aggiornarsi o hanno semplicemente perso il loro lavoro.

Arrivano generalmente a ondate, a seconda delle crisi che si verificano periodicamente. Per prima cosa cercano l’appoggio dei connazionali che sono giunti con l’ondata precedente, che si sono stabiliti in questi luoghi da tempo e che hanno, quindi, più familiarità con la burocrazia locale e con la lingua. Accettano di fare lavori anche lontanissimi dal loro background, molto spesso nelle cucine dei ristoranti, che tanto lì non si deve parlare col pubblico. Sono lavapiatti o pizzaioli improvvisati, tuttofare, runner, gente di fatica: dodici o quattordici ore di lavoro sottopagate e poi, con la schiena e i piedi a pezzi, via in camera, spesso condivisa, a dormire per ricominciare il giorno dopo. Il capo è un connazionale che ci è passato prima di loro, quindi niente lamentele altrimenti… c’è la fila là fuori. Il giorno libero, quando c’è, si passa a vagare per le strade, ad ascoltare le voci tentando di riconoscere suoni familiari e magari fermarsi a fare due chiacchiere. Poi a letto presto, che domani ricomincia la fatica.

Dopo qualche anno così, gli emigrati riescono a spiccicare qualche parola nell’idioma locale, più per imitazione passiva che per reale comprensione. Se hanno avuto abbastanza fortuna e un lavoro stabile, in genere si fanno raggiungere dalla famiglia, quando c’è, e mandano i figli a scuola. Saranno loro i veri maestri, i loro interpreti dal medico, dall’avvocato, al comune, saranno loro quelli che riusciranno a integrarsi quasi subito. Benedetti i bambini! I genitori, se saranno stati bravi e parsimoniosi, avranno messo un piccolo capitale da parte e decideranno di aprire una loro attività. Un ristorante, perché no? E finalmente saranno padroni di qualcosa, anche di assumere connazionali emigranti, di sottopagarli e di sfruttarli che tanto è così che va, niente lamentele, ci sono passati tutti.

Questo accade, ogni giorno, in diverse parti del mondo. Non sto parlando di nord africani o mediorientali che arrivano, quando arrivano, coi barconi. Sto parlando di noi, noi Italiani, con le nostre belle valigie comprate dai cinesi, il nostro biglietto aereo low cost, il nostro orgoglio e il nostro retaggio, la nostra cosiddetta superiorità culturale. Il mondo è una giostra, che gira e gira, e ciò che vediamo è sempre lo stesso carosello. Gente che sale, gente che scende, avanti un altro che c’è posto. Siamo emigranti in fuga anche noi, facciamocene una ragione.

Ora, già lo so che ci sono le dovute eccezioni, ma è proprio per il fatto che ci sono che tutto il resto appare così mastodontico. Eppure si continua a tenere gli occhi maledettamente chiusi, si continua ad avere lo stesso atteggiamento arrogante di chi si sente superiore, di chi dice no, a me non accadrà niente del genere. Poi capita. E non serve a niente la tua laurea presa col sudore della fronte dei tuoi genitori, laurea accantonata perché, se non appartenevi a una lobby, se i tuoi non hanno leccato abbastanza i culi di qualche santo in paradiso, se non hai avuto a suo tempo la lungimiranza, la fortuna, il tempismo di inserirti nel giro giusto, hai solo sprecato tempo e soldi. Non serve a niente, sei fuori, out. I lavori che hai fatto, l’esperienza accumulata, sono solo belle parole scritte su un curriculum che nessuno legge più. C’è crisi, guys, ti tocca emigrare. E tutto quello che mai avresti fatto nel tuo Paese, tutto ciò che consideravi umiliante, sei disposto a farlo adesso, in un altro posto, dove nessuno ti vede e ti giudica.

E allora, mi domando, perché stiamo lì a discutere degli emigranti che sbarcano sulle nostre coste, che ci rubano il pane da sotto i denti, che si appropriano di un lavoro che ci spetta di diritto? Quello stesso lavoro che non vogliamo fare, non qui sotto gli occhi di chi ci conosce? Aria fritta. Gira la giostra, gira, e siamo tutti uguali. La livella non comincia il suo lavoro solo sotto terra.

 

Biglietto di sola andata

indexHo viaggiato molto nella mia vita, e sono stata fortunata. Ricordo ancora il periodo in cui, come agente di viaggio, partivo due o tre volte l’anno a scoprire mete che poi avrei raccontato ad altri sognatori. Ricordo che a quei tempi (non c’era ancora stato l’11 settembre), ogni viaggio prevedeva un biglietto andata e ritorno. Anche i miei. Non è che non si potessero acquistare biglietti “one way”, ma costavano, e tanto… Come se ci fosse una sorta di complotto che accomunava tutte le compagnie aeree: “E che non vogliamo farli tornare? Cerchiamo di dissuaderli in partenza!” Eppure qualcuno lo faceva il biglietto di sola andata. Certo dopo averci pensato bene, magari per mesi, risparmiando, sudandosi quelle lire una per una. Chi comprava un biglietto “one way” aveva le dita che tremavano, e pure la voce, quando tirava fuori il portafogli.

Oggi i biglietti di sola andata costano poco. Forse le compagnie aeree hanno capito che è meglio lasciarle circolare le persone che tenerle chiuse, costrette. Il desiderio di libertà, la globalizzazione… difficile tenere a freno i flussi degli esploratori. Eppure… per la prima volta ho acquistato un biglietto di sola andata, e le mani hanno tremato lo stesso. E non per il denaro.

Credo che dipenda dal significato. “One way”, una direzione, nessun ritorno. Che non significa non tornare più. Significa posticiparlo a data indefinita. Significa non voltarsi subito per aggrapparsi a ciò che abbiamo di certo, e che spesso rende più sereno il viaggio. Un biglietto di sola andata è un tuffo nel vuoto, e fa paura, non facciamo gli ipocriti. Penso a tutti quei giovani, magari ventenni, che partono perché “c’è la crisi”, “non ci sono opportunità”. Sì, è vero. Ma a vent’anni quale sforzo hai fatto nella vita per poter affermare che “fuori è meglio”? Ma sì, vai, viaggia, esplora il mondo, impara, fai esperienza. Poi torna però, almeno per un po’, a raccontarcela questa vita che hai vissuto, a farci vedere le tue rughe e a tramandare ai figli che verranno il tuo valore aggiunto.

Io l’esperienza l’ho fatta qui, ne ho trasmessa tanta, senza mai allontanarmi se non per godermi il viaggio. E adesso, nel mezzo del cammin della mia vita, posso anche lagnarmi della crisi e della mancanza di opportunità, e cercarle altrove. Comprare un biglietto aereo one way, tremare un po’, strappare le mie radici profonde, e guardare avanti con sguardo sereno. Non giù, nel vuoto.

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via.

[Cesare Pavese – La Luna e i Falò]