In questi mesi, che stanno diventando anni ormai, ci si confronta ovunque con la realtà del terrorismo di matrice religiosa. Già questa faccenda mi infastidisce alquanto. “Matrice”, cioè “di madre”, “partorito da utero femminile”. In pratica le barbarie perpetrate a danno di altri esseri umani hanno una assonanza col genere femminile, assonanza nefasta, se si considera che ogni atto delittuoso organizzato, ha una qualche “matrice”. Delitto di matrice mafiosa, delitto di matrice omofoba, delitto di matrice sessuale. Quest’ultimo, per uno strano e contorto mio modo di interpretare le parole, sarebbe il paradosso estremo, come se le donne si auto infliggessero certe punizioni orribili.
Eppure partorire, essere madre quindi matrice, è un atto d’amore, il più grande e assoluto. L’unico atto che presuppone e realizza l’accoglienza senza riserve, perché le donne sono proprio strutturate così, fisicamente e emotivamente. Hanno questo utero, questa specie di piccolo contenitore, che si dilata man mano che un nuovo essere ci cresce dentro, di qualunque sesso sia. L’utero accoglie tutto, senza discriminazioni. La donna accetta, già per costituzione naturale, di veder trasformato il suo corpo, adattato ad ospitare qualcuno di diverso da sé. Una mutazione genetica. Cosa che ha sempre fatto andare di matto l’uomo, inteso come genere. Perché lui non ce l’ha quel contenitore là… E allora come punire questa donna che ha l’ardire di essere eccezionale?
Cominciamo con le religioni monoteiste. Hanno tutte un “Padre”. Dio, Javeh, Allah, Ahura Mazdā, e persino Aton, l’antico Dio del Sole egizio, sono tutti maschi, genitori unici, creatori dell’uomo e, per caso, distrazione, disgrazia, utilitarismo, della donna. E che cazzo! Considerando che la donna è l’unico essere della specie in grado “veramente” di procreare, questa scelta mi pare di una violenza inaudita. Gli stessi grandi profeti delle religioni monoteiste sono uomini. Abramo, Gesù, Maometto, Zoroastro, Mosè, Bahá’u’lláh, e tutti gli altri più o meno noti, erano uomini che predicavano religioni in cui un Padre, unico e solo, aveva avuto il desiderio di creare un Universo, un mondo, popolato da suoi figli. Figli devoti che avrebbero dovuto seguire le sue regole altrimenti sarebbero stati puniti ferocemente. Non è certo un caso che questa cosiddetta figura paterna ricalchi appieno quella autoritaria del pater familiae, tutto sta a capire chi copia chi. Poiché una delle punizioni consisteva nella fine della vita terrena, questo dio-padre pensò bene di trovare una scappatoia e affiancò agli uomini le donne, che avrebbero rigenerato altri uomini in modo che “il gioco della vita” non si esaurisse in breve tempo. Detto così sembra quasi uno di quei giochi di ruolo dei bambini, che so, la ricostruzione di una battaglia storica, cowboy e indiani, ma anche semplicemente un plastico col trenino. Non ci sentiamo tutti creatori davanti a giochi così?
Quindi la donna si vede affibbiare il suo bel ruolo “marginale” di continuatrice della specie (ruolo che, a cascata, si ritrovano tutte le femmine di tutte le altre specie esistenti, tranne forse qualche arcaica specie che pratica la partenogenesi), una sorta di incubatrice insomma, ma per tutto il resto deve subire. Deve subire l’originario scotto di essere eccezionale. Qui non c’è mela che tenga, non ci sono colpe e punizioni nel giardino dell’eden. Si tratta del più bieco maschilismo, questo è il peccato originale, e io, che non sono femminista praticante, l’ho capito da un pezzo. Eppure, altro paradosso, sono prevalentemente le donne che si inchinano con sussiego nei luoghi di culto, quelle che tramandano di generazione in generazione il credo nel quale sono cresciute, quelle che pregano con maggior fervore quando un atto di “matrice” terroristica (ma possibile che nessuna si renda conto dell’abiezione di questo termine?) colpisce duramente quei figli procreati con tanto dolore. Perché si soffre anche, a mettere al mondo un figlio, non è certo una passeggiata. Ma non siamo eroine, care donne, siamo solo la nemesi di noi stesse, destinate a soffrire per dare la vita e a soffrire per la morte che la nostra progenie infligge.
Io credo che se Dio, Allah, o chi per loro, fosse stato donna, probabilmente avremmo un mondo pacifico. Sì certo, qualche schiaffone ogni tanto, anche qualche pedata a qualcuno, sarebbero stati necessari, perché una madre amorevole deve educare i suoi figli in qualunque modo, bloccare le intemperanze prima che degenerino. O forse, se fosse stata una donna a decidere, il monoteismo non esisterebbe affatto. Ci sarebbe ancora un democratico politeismo (perché le religioni, i credo, esistono a prescindere, l’essere umano ha bisogno di delegare le responsabilità), dove dei e dee si sollazzano da qualche parte, ogni tanto litigano e si fanno la guerra, ogni tanto scendono tra gli umani e mescolano passioni e sapienza con loro, mostrano muscoli e tette e gli umani li premiano o li maledicono, a seconda dei casi.
Tutto ciò che ho scritto è frutto delle mie personalissime riflessioni, non ci sono documenti storici o scientifici per dimostrare un bel niente (beh, sulle religioni monoteistiche qualche documento c’è). Lo stesso ateismo, a mio avviso, ricalca quell’assunto per cui il genere umano ha “bisogno” di credere in qualcosa, anche nell’assenza di un essere superiore. L’unica cosa in cui credo io è che la nostra vita, di uomini e donne, abbia uno scopo, e che le strade scelte per perseguirlo siano nostro esclusivo arbitrio, di cui siamo unici responsabili. Non esistono le “matrici”, preferisco, a questo punto e allo stato dei fatti, chiamarle “paternità”.