Sono io la mia rosa. [La mia vita in Germania]

Le Petit Prince - Immagine presa da qui

Le Petit Prince – Immagine presa da qui

“Sono davvero partita il giorno in cui sono tornata, e mi sono accorta che lì dov’ero prima ormai non c’ero più.”

All’inizio ti senti spaesata. Se fossi una persona timorosa e malfidata ti chiederesti se per caso non ti ha dato di volta il cervello ad avventurarti in un luogo sconosciuto, tra gente sconosciuta che parla un idioma sconosciuto. La conoscenza. Ciò che ci rende sicuri, autonomi, spavaldi è la conoscenza. Senza torniamo bambini Eppure io non ho avuto paura. La mia incoscienza è la mia ancora di salvezza.

Ci vuole tempo ad ambientarsi, tempo e pazienza, e desiderio di accoglienza. Accogli l’altro e sarai accolto, non aspettiamoci sempre il contrario, suvvia! Ho fatto il primo e poi il secondo passo, ma non era una questione di “persone”, “individui”. Lì non ce n’erano, nessun pericolo. Era proprio una questione di luogo. Quel luogo era la negazione assoluta dell’accoglienza. Sempre più difficile…

I primi giorni sono stata assorbita dal lavoro. Eppure… eppure quel silenzio assoluto intorno a me, di notte e al mattino, quei negozi inesistenti o chiusi, quell’assenza di turisti in un luogo turistico, quella Chiesa col cimitero in giardino, l’assoluta mancanza di mezzi di trasporto, insomma a un certo punto qualche sospetto mi è venuto… Dove sono andata a finire? Mi dicevano “Vedrai, in primavera è diverso, ci sono i boschi…”. Ma la primavera è lontana, mi sono detta io, e qui la faccenda si fa inquietante.

Isolamento. Che non ha nulla a che fare con la solitudine. La solitudine può essere una scelta, l’isolamento è una costrizione. Ho deciso di andarmene. Ma dove, come? “Che fai, ti arrendi così?” Questa era la domanda che mi ossessionava, e la risposta ovvia, conoscendomi, era NO.

L’avventura continua. La Germania non è la Baviera, non è Oberreute (segnatevelo questo nome, così non ci capitate neppure per sbaglio). Ci sono città, e persone straordinarie, e opportunità. Ci sono comunità di italiani che ti sostengono senza chiedere nulla in cambio, perché ricordano bene come è stato per loro.

Sono tornata a Roma, per qualche giorno. Volevo fare il pieno di energia, ritrovare calore e ripartire con slancio. Sono tornata ad accudire la mia rosa, come il Piccolo Principe, eppure mi sono sentita estranea. I miei spazi occupati, le relazioni sospese… Ho capito di essere partita davvero quando ho rimesso piede in casa mia, e la rosa non c’era. Perché la rosa è sempre con me, sono io.

Come Pollicino nel bosco. [La mia vita in Germania]

donna-al-finestrinoChissà cosa provavano gli emigranti del secolo scorso, quando impacchettavano la loro vita e partivano per mete lontane, lontanissime, con l’unica certezza che “là c’è un futuro”…

Io non sono lontanissima, e soprattutto non vivo nel secolo scorso. Posso prendere un treno, un aereo, e in pochissimo tempo tornare a casa. Perché, nonostante la mia partenza, casa mia non è qui. Sono giorni di riflessione questi. Giorni in cui faccio il bilancio di ciò che ho lasciato e ciò che ho trovato. Ne ho il tempo. La solitudine è il peso maggiore da sopportare, e non parlo di solitudine per mancanza di gente (che comunque è davvero pochissima). Parlo di solitudine dovuta all’isolamento. Penso a chi, per scelta, va a vivere in mezzo alle montagne, o a fare l’eremita. Ma come fa? Io qui, in mezzo a questa neve e a questi boschi, mi sento come Pollicino, sperduta.

Ma ho voluto scegliere di darmi un’opportunità, quella di un lavoro ben retribuito, quella di confrontarmi con una realtà sociale più solida e concreta. Eppure mi domando se la solidità e la concretezza non dovremmo cercarle prima dentro noi stessi. È un tarlo questo, che nelle notti silenziose, in questo hotel da romanzo di Steven King, non mi dà tregua.

Qui le persone mi salutano per strada. Nessuno guarda l’altro in cagnesco, le auto possono restare aperte. C’è fiducia. Magari non li capisco quando parlano, ma capita anche che un tizio mi vede smarrita e mi indica, solerte e sorridente, dove posso bere una tazza di caffè (devo avercelo scritto in faccia che ne ho bisogno…).

Poi ci sono le dinamiche lavorative. Pensare che un ristorante italiano debba proporre vitel tonné o penne alla vodka, perché questo i clienti tedeschi si aspettano, mi fa uno strano effetto. La nostra cucina si è evoluta dagli anni ’80, ma l’immaginario degli ex turisti teutonici no. Devo andare a ripescare tutto nel mio cassetto dei ricordi. Chi l’ha detto che bisogna lasciarsi tutto alle spalle? Io, l’ho detto io, ma non è vero. La mia italianità mi serve tutta, perché è l’unica vera forza che ho, ed è triste pensare che a casa mia non serva a niente.

Pollicino era furbo e con uno stratagemma ritrovò la strada di casa. Io sono più furba di lui.

“It’s a long train running. My life…”