Distacco

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Non ci penso spesso, o almeno provo a non farlo. Sono grandi, mi dico, e lo sono anche io.  E guardo il loro mondo attraverso i social, perché non è pensabile sentirsi di continuo. Sono grandi, mi dico e mi dicono, autonomi. Forse che io sento mia madre ogni giorno? No, vero, e non ne sento neanche l’esigenza. Mi rendo conto, a volte di apparire stronza. Ma solo a volte.

Poi vedo quelle foto, quegli scatti rubati a pezzi di vita che, non solo non condivido, ma di cui non sono neppure a conoscenza. Gente sconosciuta che con loro fa un pezzo di strada, a mia insaputa. Un nuovo look. Sorrisi e gesti mai visti prima. E il cuore perde un colpo, inevitabilmente. E si stringe anche un po’ la gola. Perché mancano quei momenti passati, quando ero il loro filtro per la vita. E a volte pesavano, la responsabilità, l’attenzione, l’esempio continui. Il risultato è questo, ce l’ho davanti, anche solo virtualmente. Un uomo e una donna straordinari, che non mi appartengono, non mi sono mai appartenuti, anche se li ho sempre chiamati figli miei.

Il profumo dell’#Italia in valigia – Manuale di sopravvivenza per #CervelliInFuga (e le loro madri)

“Noi madri, nutrici per sempre, sappiamo che dal seno alla tavola i nostri figli saranno legati a noi attraverso le suggestioni dei profumi e dei sapori. Una sorta di allattamento costante.”

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Questa frase fa parte della sinossi del libro “Il profumo dell’Italia in valigia“, ma è anche un po’ la spiegazione del perché ho DOVUTO scriverlo. Da alcuni anni ormai i nostri figli abbandonano letteralmente l’Italia, vuoi per fare nuove esperienze vuoi perché la crisi economica li costringe ad andarsene. Sono cicli che si ripetono, ma forse noi madri di oggi non eravamo preparate (e neppure i padri…). Non siamo reduci da una Guerra Mondiale (sarà poi davvero così? Diciamo non in senso letterale…), ma questo è un fatto: le famiglie si sgretolano, si dilatano, le loro radici si propendono in altri luoghi, altri territori, si incuneano in altre zolle e lì fanno germogliare nuovi frutti. Cosa accade però quando i nostri figli vanno via? Siamo sinceri, è straziante!

A me è capitato, e ho provato a reagire a modo mio. Non ho rinunciato al legame con mio figlio, ma ho pensato che questo distacco potesse essere un’opportunità di crescita per entrambi, un secondo svezzamento.

Dalle conversazioni via skype con lui, dall’ansia per la sua salute, una frase ricorreva, sempre: “Cosa mangi?”. E allora ha preso forma questa sorta di diario, piuttosto ironico direi, dal quale traspare tutto, sentimenti compresi, e nel quale ho trascritto alcune delle ricette semplici e a basso costo che ho inviato a mio figlio. Perché la crisi economica va combattuta con ogni mezzo, senza però dimenticare il buono che la nostra terra ci ha regalato. E la cucina è una di queste cose buone.

Mi ha aiutata in questa nuova avventura libresca James Califano, un nostro figlio che si trova laggiù, in Australia, e che sta portando avanti “in loco” un progetto artistico-culinario (ItaliansDownUnder) col NOMIT. Ma è tutto ben spiegato nel libro. Ah! La cover è sua (disegno originale) e anche i disegni in appendice. Bellissimi!

Buona lettura e buon divertimento!

N.B. Presto su tutti gli store online nella versione digitale. La versione in brossura è ordinabile dal sito dell’editore (ancora qualche giorno, abbiate pazienza…)

cover_1875x2500  Titolo: Il profumo dell’Italia in valigia

Autore: Cetta De Luca – con James Califano

Editore: Alkemia Books

Qui la versione eBook

I figli, che bella invenzione! [da “Quella volta che sono morta”]

Immagine presa da qui

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Ci riflettevo sul senso delle mie compulsioni. Ero sicura che si trattasse di questo, non di insicurezza. Un po’ come le manie innocue di mia madre. Lei al mattino, prima ancora di far pipì appena alzata, si lavava i denti. A volte se li spazzolava seduta sul water. Così risparmiava tempo. – E se viene qualcuno? Magari il dottore? Mica posso avere l’alito pesante, ti pare?- e giù a spazzolare. Ha sempre avuto la fissazione del medico in casa. La mattina presto. Perché secondo lei non ci si ammala di giorno. Solo di notte, quando siamo più indifesi nel sonno. E a volte, se al mattino ci svegliamo con la febbre, è perché nel sonno siamo cresciuti. Febbre di crescenza la chiama. Ma questa è un’altra storia. Io non ho mai aggiunto un centimetro alla mia statura, in effetti. Comunque lei dice che ci si ammala di notte e che quindi il medico può servire la mattina presto, per cui bisogna essere pronti a riceverlo con la vescica vuota e l’alito fresco. Mia madre è una maniaca dell’igiene, quindi è innocua. Come le mie compulsioni. E questa è una certezza, non v’è dubbio. Primo punto a mio favore.
Restavano quei ghirigori però. E il parcheggio dell’auto. E anche la spesa nel carrello, sì anche quella, allineata e accatastata secondo la forma e le dimensioni. Il mio carrello quando arrivava alla cassa pareva una scultura del miglior cubismo. Un peccato
svuotarlo.​​​​                                             
Quando era cominciato tutto questo? Il carrello e il parcheggio sicuramente dopo i diciotto anni, se non altro perché prima di allora non avevo né patente né autonomia economica.
                           
I ghirigori probabilmente risalivano all’età scolare. All’epoca però li facevo sui quaderni a quadretti. E anche su quelli a righe. Ricordo la sfida del quaderno a righe di terza elementare. Una riga larga e una più sottile. Ma che perfidia. Serviva a rimpicciolire la grafia. Io che scrivevo talmente largo che con tre parole dovevo andare a capo, ero in profondo imbarazzo. Ogni volta che dovevo scrivere fissavo quel foglio per diversi minuti, per decidere le misure, un po’ come prendere la rincorsa e affrontare la  sfida.        

Io e le righe diseguali. Tanti bambini hanno riportato traumi emotivi a vita per questo, ne sono certa. E sono diventati tutti medici, dalle grafie incomprensibili. Colpa delle righe della terza elementare. Io non sono diventata medico. Io risolvevo all’epoca con un diversivo. Per prendere coraggio mi allenavo facendo cornicette sul bordo superiore e inferiore del foglio. Sempre più complesse, man mano che prendevo confidenza con le misure. È lì che è cominciata la mia passione per il cubismo, che quando ho visitato il Moma a New York mi sono sentita una di famiglia tra quei dipinti, compresa, accettata.
Quello che non feci mai, durante quel fatale anno di terza elementare, e neppure in seguito, quando ormai la compulsione si era conclamata, fu di chiedere aiuto. Non chiesi mai alla maestra come dovevo fare per far entrare le mie enormi lettere in quelle righe così piccole. E non lo chiesi neppure a mio padre, tantomeno a mia madre. Mi arrangiai da sola. Sfogandomi coi ghirigori. Figuriamoci. Figuriamoci se l’avessi fatto. Chiedere aiuto. Io. È così che comincia l’isolamento. Non sono gli altri che ti ci mettono. Ci vai da sola. Ti metti in castigo da sola per orgoglio, per dimostrare quanto sei brava e forte, o magari perché pensi che gli altri non siano all’altezza di aiutarti. Ma che ne sai a otto anni se gli altri sono all’altezza di aiutarti o no? Forse l’hai chiesto, una volta, l’aiuto, e sei rimasta delusa. I bambini ricordano tutto. Solo che poi da grandi se ne dimenticano. Rimane solo l’effetto dell’oltraggio subito. E vanno in analisi. A volte per anni. Per disseppellire qualcosa che, a ben pensare, meglio sarebbe se restasse sommerso.

Ho detto a mio figlio che forse lui perde i capelli per un trauma infantile di cui non ha memoria. Gli ho detto che voglio aiutarlo altrimenti non potrò reggere i sensi di colpa. Ho detto: – Qualunque cosa tesoro. La elimineremo alla radice.- Mi ha guardata, serio, ci ha pensato, ancora più serio, e ha risposto: – Fermo restando che capita a noi uomini, superati i venticinque anni, di cominciare a perdere i capelli, in realtà credo che il trauma di avere una sorella maggiore possa essere stato il fattore scatenante, sì. Quindi se pensi di poter fare qualcosa al riguardo per eliminare il problema, io e i miei capelli te ne saremmo enormemente grati. –  I figli, che bella invenzione!