Ero molto indecisa – ultimamente mi capita spesso – se affrontare o meno l’argomento che in questi ultimi giorni è tanto discusso ovunque, sui media, sui social, ai tavolini dei bar: definire i malati di cancro come dei “guerrieri” quando lottano per sopravvivere potrebbe sminuire chi invece non ce la fa. Certo detto così pare in ogni caso un abominio, anche perché sono tante le malattie in cui si lotta per sopravvivere e mi pare ovvio che l’obbiettivo per tutti sia vincere. Linguaggio troppo “guerresco”? Può darsi, ma ci hanno insegnato fin da piccoli che il nostro corpo è costruito con “armi appropriate” – le chiamano difese immunitarie – per combattere contro agenti esterni e avversi, quindi perché ci stupiamo e parliamo di retorica quando utilizziamo questa terminologia proprio per una malattia come il cancro?
Credo sia importante, anzi è importante, che finalmente se ne parli. Se non ci fosse stata questa apertura da parte degli stessi malati probabilmente molte ricerche oncologiche sarebbero ancora più in ritardo, molte scoperte di nuovi farmaci non ci sarebbero state e, credetemi, i ricercatori hanno bisogno che i malati parlino con loro, si confrontino sugli effetti delle cure, solo così si può andare avanti. Quindi il malato deve – dovrebbe – avere un atteggiamento attivo e collaborativo per consentire all’oncologo di fornirgli le armi/strumenti più adatti a combattere la malattia. Ancora dico combattere. Certo. Non passiamo dalla retorica alla falsa retorica, di combattimento si tratta, l’unico combattimento in cui le armi te le forniscono ma in campo ci sei solo tu.
C’è questo articolo appena uscito su Corriere.it (qui) è riportata un’affermazione di Maurizio Crosetti:
Esiste una retorica del cancro secondo la quale vince chi lotta di più, chi non si arrende, chi ha più carattere. Oltre che falso, è offensivo per chi soccombe e muore. Non si arrende: muore. E chi vive non vince: guarisce.
Ora mi perdoni Crosetti ma sembra un po’ come quando per rispondere a un fatto si sottolinea un “non fatto” (tipo “e allora il PD?” per capirci). Non è così, non può esserci una simile distinzione fra chi sopravvive e chi muore. Chi muore ha lottato ugualmente, con la stessa determinazione, però non ce l’ha fatta. Nello stesso articolo si parla della battaglia condotta dagli oncologi: sono loro che ci danno le armi, sono loro che stabiliscono le strategie. Un cazzo! O meglio certo che loro sono i fornitori e gli strateghi, ma sul campo la palla è la nostra. Il corpo accetta i farmaci e li utilizza, e sta a noi aiutarlo ad utilizzarli al meglio. E qui ci vuole lucidità, concentrazione, determinazione. Non esiste malato di cancro che non metta in campo tutto questo, tutta la forza che ha per superare gli effetti della cura, tutta la volontà possibile per recuperare ogni giorno una sorta di quotidianità compatibile con quella che aveva prima, qualcosa che possa chiamare vita. Qualità della vita… mia madre è morta combattendo fino all’ultimo istante, e non dovrei chiamarla eroina? In guerra si vince o si perde, ma si combatte in ogni caso. Se non piace il gergo guerresco potremmo usare quello calcistico, che differenza fa?
Ancora sul Corriere.it c’è scritto:
Pensare che si possa guarire o morire a seconda dell’atteggiamento con cui ci si cura è l’ultimo rifugio della presunzione di onnipotenza psicologica. Magia, non scienza.
Ma chi afferma una cosa del genere? L’atteggiamento con cui ci si cura è individuale, personalissimo e insindacabile, e serve semmai ad affrontare con coraggio gli effetti della cura stessa. Lo shock psicologico di sapere di avere il cancro è qualcosa di talmente intimo, talmente profondo – specie in relazione alla montagna di paure ataviche che si porta dietro – che già per affrontare questo ci vuole una spinta straordinaria che nessuno, nessuno ti insegna. E poi ci sono le cure… altro coraggio, altre risorse da cercare e trovare dentro di te. Nessuno ti può aiutare in questo e nessuno può giudicare. Si è eroici agli occhi degli altri probabilmente perché rappresentiamo al meglio la figura del temerario solitario che combatte una battaglia iniqua, come Davide contro Golia, e a volte vince. Ma a volte perde.
Lasciateci credere che un po’ di magia possa davvero funzionare, lasciatela venire a noi con le parole che ciascuno ritiene opportune e che spesso non sono facili. Mi capita di parlare con signore che si curano insieme a me, più grandi di me perché di un’altra generazione, e loro sono arrabbiate, alcune pregano, altre tacciono perché “nominare il male porta male”, altre ancora sembrano rassegnate, oppure non chiedono nulla agli oncologi su quanto sta loro accadendo. Ecco, su quest’ultimo atteggiamento non sarò mai d’accordo, questa passività assoluta non la trovo utile, però capisco come la paura, anche quella di sapere, possa far uscire di testa. E la testa è importante, come ho detto. Non si guarisce solo con la testa, ma senza la testa non si aiuta nessuno. E adesso non venitemi a dire che “allora chi non ce la fa?”. Chi non ce la fa è perché sono insorte altre cause, altre incognite e il corpo è una macchina soggetta ad usura, e le ingiurie, una dopo l’altra, una sommata all’altra – le cure oncologiche sono armi di distruzione in tutti i sensi anche quando fanno miracoli, anche quando guariscono – alla fine possono determinare il risultato della partita. Va meglio così? Possiamo parlare di partita?
Io vi posso dire, alla fine di tutto questo ciarlare, che articoli come quello del Corriere.it, che nel suo intento voleva “proteggere” chi si ammala di cancro e non ce la fa, ritengo sia offensivo per chi invece lotta e continua a lottare per farcela. I sensi di colpa già li abbiamo per conto nostro, come se questo male fosse una qualche punizione che non scontiamo solo noi, ma anche i nostri cari e chi ci sta vicino e cerca di supportarci come può. Non voglio sentirmi in colpa anche quando – mai dire se, sì, un po’ di onnipotenza psicologica, ok? – ne uscirò, non voglio sentirmi in colpa per aver lottato. Mariù mi ucciderebbe con le sue mani se lo facessi. E lasciamo a tutti la libertà di usare le parole che vogliono, le metafore che meglio credono opportune, il tifo da stadio o da Colosseo, sono sempre meglio del silenzio.