“Le preghiere servono sempre, anche se sei diagnostica.” E come contraddire la genitrice che è così convinta della sua fede tanto da trasformarla in diagnosi? In fondo per i credenti un agnostico è un malato, giusto?
Avrei voluto averla accanto quando, dopo il mio intervento, è arrivata una volontaria, una di quelle “signore bene” della Roma papalina (quelle che abitano dalle parti di San Pietro, per intenderci). Lo sapevate che le volontarie indossano il camice bianco come i medici? E io, spossata dai farmaci e dai dolori, senza occhiali per poter leggere il cartellino, l’ho scambiata per un dottore che faceva il giro e sono stata ad ascoltare in religioso silenzio. Dopo cinque minuti ho pensato “Sarà una psicologa”, perché ci sono negli ospedali e seguono i malati oncologici per dare sostegno. Le sue domande su cosa mi era successo, su come mi sentissi, parevano voler raggiungere un solo obiettivo: farmi sfogare. A un certo punto ha cominciato a raccontarmi della sua esperienza col cancro. “Caspita!” mi sono detta “Ultimamente tutte le dottoresse che incontro sono reduci, come me.” Quindi comprensive, quindi in grado di capire, quindi empatiche… come no!
“Sa, anche io sono stata operata cinque anni fa.”
“All’utero?”
“No, al seno. Poi ho fatto anche la chemio.”
“Io l’ho fatta prima e spero di aver finito così, sinceramente…”
“Eh, si vedrà giusto? Anche se io due anni fa ho dovuto farla di nuovo.”
“E come mai?”
“Metastasi al fegato.”
Io vorrei sapere se fanno una selezione specifica per queste persone o se davvero esistono ancora quelle categorie di nobildonne che non hanno un cazzo da fare tutto il giorno e decidono di venire a romperlo a me. Mamma, ora che ti hanno tolto tutto devi farmi lo sfascino al più presto che qui gira brutta gente. Poi me lo insegni anche, che finalmente posso imparare. Va bene, aspettiamo l’istologico…
Questo è l’aspetto più stressante della malattia e della cura: l’attesa paziente, e io paziente non lo sono affatto.
“Come stai Cetta?” Mamma mi chiama ogni mattina…
“Come ieri, ma’, non è cambiato poi molto in 24 ore.”
“Devi avere pazienza, la convalescenza è fatta per riposarsi…”
“E io vorrei riposarmi, se non fosse per questi dolori. Stavo meglio quando stavo peggio.” Ultimamente eccedo in luoghi comuni per dispetto. Ma come glielo spiego che non riesco a stare sdraiata, a camminare, a stare seduta, come le spiego che mi sento mutilata dalla vita in giù, che le gambe non rispondono al mio appello alla mobilità se non con estrema fatica, che vorrei uscire, guidare l’auto, riprendere a lavorare, ma non posso?
“Fai altro, quello che ti riesce di fare!” E ha ragione anche lei.
Mi viene in mente Florentino Ariza, innamorato perso di Fermina Daza sin dall’adolescenza, che l’aspetterà tutta la vita ma, nel frattempo, si dedicherà a tutte le donne che la sorte gli porterà in dono.
Capita che sfiori la vita di qualcuno, ti innamori e decidi che la cosa più importante è toccarlo, viverlo, convivere le malinconie e le inquietudini, arrivare a riconoscersi nello sguardo dell’altro, sentire che non ne puoi più fare a meno… e cosa importa se per avere tutto questo devi aspettare cinquantatré anni sette mesi e undici giorni notti comprese? [Florentino Ariza da L’amore ai tempi del Colera – Gabriel Garcia Marquez]
E adesso prendiamoci il nostro tempo per ascoltare…
“E come lo sta affrontando questo percorso?”
“Beh, io sono una testarda, quindi lo affronto con determinazione e positività. Mi informo e lotto. Io intendo vincere.”
“Molto bene, questo è lo spirito giusto. Però si ricordi, se ne sente il bisogno ogni tanto pianga pure. Non deve dimostrare niente a nessuno.”
Questo dialogo non è tratto da un romanzo di appendice. Queste sono le parole che ci siamo scambiate, io e l’oncologa, subito dopo la prima visita pre-chemio. Perché è prassi avere un colloquio con lo specialista prima di sottoporsi al lungo processo (diverse ore) che ormai tutti conosciamo come LA CURA. “Io piango, eccome se piango, e non mi vergogno affatto. E dopo mi sento un pochino meglio, specie quando piango coi singhiozzi, quelli che mi squassano il torace che sembro un lupo che ulula alla luna…” Il fatto è che negare la realtà non serve proprio a niente: la realtà bisogna accoglierla e farla diventare, almeno per un po’, quotidianità. Non abitudine. Non ci si può abituare al cancro.
Strano come l’universo intero pare stia lì a ricomporsi, a muoversi, a proporsi con immagini, notizie, informazioni sulla malattia e LA CURA esattamente dal preciso istante in cui tu scopri di avere il cancro. Come se volesse inviare dei segnali. Io credo di aver capito di essere malata proprio dai messaggi subliminali che mi arrivavano, prima ancora di averne la certezza dai risultati degli esami. “Caspita, ma anche lui è ammalato? E lei? Così giovane… ma c’è un’epidemia in corso?” Ti senti invadere da uno smarrimento feroce, senti di non avere scampo, non puoi fuggire. Apri gli occhi, apri gli occhi, apri gli occhi. Non voglio, non voglio, non voglio… Carcinoma squamoso e adenocarcinoma infiltrante. Il suono di questi due nomi è talmente osceno, cacofonico, che li ribattezzo Scilla e Cariddi.
“E ora che faccio?” La voce dentro di me ha un’eco lunghissima. Sono schiantata ai miei piedi, schiacciata da un peso che neppure credevo potesse esistere, sola davanti a questo ospedale di Roma, col cielo più sereno che c’è e la gente che cammina e il cuppolone che mi sovrasta. Sola qua fuori, con l’eco della mia voce dentro, con l’eco della voce del medico che mi comunica la sentenza, con l’eco di tutte le voci che mi venivano incontro nei giorni passati dal mondo del web. Forse è stato così anche quando stavo per nascere, chiusa nel grembo materno. Forse sarà così anche quando dovrò morire. Siamo sempre soli nei momenti davvero importanti della nostra esistenza, nessuno può sopportare quel peso al posto nostro e nessuno può immaginare cosa sia.
“Certo è grande, certo è infiltrato, ma non si preoccupi, toglieremo tutto con un bell’intervento radicale.” Che se lo avessi saputo prima, se solo lo avessi immaginato, avrei fatto come la Jolie, avrei tolto tutto preventivamente. Tanto a che serve un utero? Dopo che ha svolto la sua funzione, dopo che l’età fertile è diventata un lontano ricordo, a che cazzo serve l’utero? A niente. Solo un potenziale ricettacolo di malattie e problemi. Questa mania che abbiamo tutti di conservare, preservare. La vita, solo di quella ci dobbiamo occupare.
L’ATTESA.
L’attesa è quel periodo necessario a renderti malleabile, elastico, paziente. Devi aspettare di sapere quale sarà il tuo protocollo e, prima ancora, devi aspettare di sapere bene cosa hai e cosa ragionevolmente accadrà dopo. Io mi proietto già a quel dopo, con tutto il corpo, la mente, l’anima. Io voglio essere IL DOPO, io sono DOPO. E fremo, e scalpito e mi informo. Mia madre mi dice che sarebbe meglio non sapere troppe cose, un po’ di incoscienza aiuta. Io le rispondo che non sapere non metterebbe a tacere il mio cervello dubbioso e mi farebbe vivere un inferno. Mi informo quindi, mi leggo interi PDF con termini medici assurdi, mi scarico ricerche e statistiche, imparo a memoria sintomi e cause, comincio ad ascoltare il mio corpo. Ad ascoltarlo sul serio. E mi rendo conto che certi segnali avrebbero dovuto allarmarmi già tempo fa, e capisco che questa abitudine al dolore e alla sopportazione che noi donne spesso coltiviamo, – perché siamo tutte eroine, vero? – non va bene, ci insegna a nascondere i sintomi e le cause anche a noi stesse. Non va bene, no. Bisogna essere un pochino fragili, è umano.
TAC total body. La mia spada di Damocle del momento. Ho paura di questo test più di qualunque altro, ora. Perché mi dirà se Scilla e Cariddi hanno esteso la loro insaziabile fame di me da qualche altra parte. Non l’ho mai fatta in vita mia, quindi non avrò parametri di confronto, ma una cosa la so: io fumo da quarant’anni… “Non fumerò più, lo giuro. Non fumerò, non fumerò, non fumerò…” L’eco della mia voce come un mantra, una supplica al cielo, alle energie dell’Universo, a un Dio che non conosco e che non prego. “Mamma, ho paura mamma, prega tu per me, tu che lo sai fare.” “La tua è già una preghiera, la più potente.”
Nessuna metastasi. Sono una delle persone più sane col cancro che il mio chirurgo abbia visto, nonostante il mio vizio. Non fumerò più, l’ho promesso a me stessa, e io le mantengo sempre le mie promesse.
IL PROTOCOLLO
Prima di Natale mi opero così posso cominciare l’anno nuovo con nuove prospettive.
“Deve fare un ciclo di radio e di chemioterapia neo-adiuvante. Bisogna ridurre le dimensioni della massa perché, anche se le asporterò tutto, c’è il rischio di andare a ledere organi limitrofi, la vescica per esempio, e non posso consentire che una donna giovane come lei abbia la qualità della vita compromessa.” Io non lo ascolto più di tanto. Io so solo che l’intervento è rinviato e che è stata pronunciata la parola “chemioterapia”. Stavolta c’è mia figlia a sorreggermi mentre precipito, mentre mi si piegano le ginocchia e crollo con un’unica emissione d’aria che espelle tutto il calore che ho in corpo. Penserete che io stia esagerando, che stia raccontando reazioni troppo violente a situazioni, tutto sommato, positive (nel senso che qui non c’è la vita in gioco). Ma è così, il cancro è una malattia violenta che violenta la tua vita, che ti costringe a concentrarti solo sul male, che ti ruba il tempo e ti porta dentro un loop, una centrifuga, ti mette a nudo letteralmente e ti lascia sola, a fare i conti con la tua capacità di superare tutto quanto. E non è che puoi scegliere. Lo devi fare, e basta. Soccombere non fa parte del copione. Ma soprattutto il cancro ti mette violentemente davanti a una parte di te sconosciuta, e che spesso rimane tale fino alla fine dei tuoi giorni. Nessuno sa come potrebbe reagire davanti alla malattia, non lo sa finché non ci si trova in mezzo, questa è la verità. Sto provando a raccontarlo, ma so già che non riuscirò a rendere davvero l’idea.
Chemioterapia ha un suono secco e duro, proprio come immagino sia doverla affrontare. Ci sono decine di migliaia di testimonianze e testi su questa terapia, sui suoi effetti collaterali e sui suoi benefici, ma chissà perché la cosa che più di tutti balza all’occhio è la perdita di capelli. Forse perché si tratta dell’unico effetto collaterale visibile. E pensare che è il meno importante… però non è vero, per una donna è importante, noi non siamo abituate all’idea della calvizie (temporanea tra l’altro). Ma non tutte le pozioni fanno cadere i capelli, e la mia dovrebbe essere tra quelle. In compenso ci sarà tutto il resto. E tutto il resto è pesantissimo.
“Chi le ha detto che non le cadranno i capelli? Metta in conto che ha un buon 60% di possibilità di perderli, e consideri che lei ha una seduta a settimana, quindi dopo una decina di giorni lo vedrà.” L’empatico oncologo che mi fa la prima visita mi regala questo knockout fuori programma, perché non bastano la paura e la sensazione di smarrimento, bisogna necessariamente abbassare la soglia della speranza. E non parlo di speranza di guarigione, cosa c’entra. Parlo di speranza di non stare troppo male nel perseguirla. Anche stavolta non ero sola, avevo il figlio giusto ad accogliere la notizia con me, quel figlio che capisce bene il valore dei capelli e che ha saputo trovare il giusto silenzio per consolarmi. I capelli non cadranno, alla fine, e io non ringrazierò mai abbastanza quello stronzo di oncologo che mi ha fatto vivere ogni seduta settimanale, sei in tutto, e i giorni che ci stanno in mezzo, con un tale stato d’ansia che tutti gli altri effetti collaterali si sono amplificati come allo stadio quando c’è un concerto degli U2. Certi medici dovrebbero essere internati. Il sedicigennaioduemiladiciassette ho cominciato la prima seduta di chemio e radio insieme (terapia concomitante, perché io sono da tutto o niente), il quattordici sono andata a tagliare inutilmente i capelli, il tredici ho deciso di smettere di cercare informazioni sul web e altri supporti. Quando si deve cominciare una gara, quando si deve sostenere un esame, io funziono così, a un certo punto quel che è fatto è fatto, allenamento o studio che sia. “Puoi contare solo su di te, adesso. Sei sola, adesso. Sii forte, adesso. Accogliti, adesso. Resisti senza opporre resistenza, adesso. Sii come una canna al vento, adesso.”
GLI EFFETTI
“Il dolore, se non lo manifesti in qualche modo, nessuno ci crede che ce l’hai.” Non ho capito un cazzo di niente dalla vita, io. Tutto il tempo lì, a mostrare stoicamente la parte migliore di me, a minimizzare, per non far pesare mai nulla sugli altri. E poi gli altri ci credono che non hai niente, che stai superando la faccenda alla grande… Non è così, ora ve lo dico com’è. È la nausea, quella bassa all’altezza dello sterno, quella che ti viene quando non hai digerito e ti provoca anche aria da reflusso, e non passa mai, niente, sta sempre lì a impedirti di mangiare come vorresti, di rilassarti, di dormire serena, sta sempre lì a ricordarti che, cazzo, stai male. E punto. E magari ci fosse il vomito liberatorio. Quando c’è è solo una cosa in più, perché non ti liberi proprio di niente, la nausea resta lì ancorata alla bocca del tuo stomaco che tu vorresti strappartelo via e ti viene da piangere ma non puoi piangere sempre… Anche perché se piangi quel sapore di ferro che ormai staziona nella bocca, si sente di più. Se sei fortunata come me i sapori del cibo non si alterano, e neppure gli odori. Fortunata… con la nausea che ho mi avrebbe fatto comodo una sorta di ripugnanza.
Poi c’è la stanchezza, che non è una cosa già provata e quindi è difficile da descrivere, anche ai medici che ne hanno contezza. Una stanchezza totale, senza che i muscoli o le ossa siano dolenti in qualche modo, senza che il cuore modifichi il suo ritmo, una stanchezza che rende il respiro corto e spezzato, che ti porta a fermarti dopo cinque passi laddove ne facevi cinquanta perché hai la sensazione di avere due blocchi di cemento al posto delle gambe, che ti spinge a passare dalla sedia al divano in cinque metri di casa, che ti fa sentire un’oscillazione interna come se ci fossero continue scosse di terremoto e questo ti fa venire sonno all’improvviso, ovunque ti trovi. Chi ha sofferto o soffre di mal di mare può avere una vaga idea di questa sensazione che sto cercando di descrivere, solo che in quel caso, placate le onde, tutto finisce. La stanchezza si unisce alla frustrazione quando non riesci a metterti un paio di collant, quando non riesci ad asciugarti bene dopo la doccia, quando anche le quotidiane e intime faccende necessiterebbero dell’aiuto di qualcuno perché la torsione del busto ti toglie l’aria residua dai polmoni e le cose sono due, o respiri o ti lavi. “Ho cinquantasei anni, cazzo, non mi ha mai fermato niente e nessuno, ma che davvero?” Posso anche singhiozzare di gioia dopo essere riuscita a infilarmi le calze, rotolandomi sul letto per farlo, e continuare a singhiozzare disperata per averle rotte subito dopo, ma non posso certo permettere che LA CURA si trasformi in tortura. Per questo indosso la maschera migliore, per questo gli altri non capiscono come sto, per questo glielo devo raccontare. Perché io sono solo una tra mille di quelle persone che ogni giorno affrontano il cancro, una tra mille di quelle che lo raccontano, ma credo che raccontarlo non faccia male, e non è psicologia spicciola. Io arrivo sempre alla giornata della chemio con la consapevolezza che quella seduta (la faccio su una bellissima poltrona ergonomica) sarà una in meno.
Bisogna tener conto del fattore radioterapia. Il fatto che non ci siano buchi di ago, il fatto che ogni quotidiana seduta duri poco più di dieci minuti, il fatto che non ci sia nulla di visibile, non significa che non ci siano effetti collaterali. Non è una lastra lunga sei settimane. Lo devono bruciare quel cancro, lo devono ridurre, mentre la chemio impedisce alle sue cellule impazzite di riprodursi, e le radiazioni questo fanno: bruciano. Letteralmente. Mi viene in mente che a Chernobyl le persone sottoposte a radiazioni sono morte o si sono ammalate di varie forme di cancro… che ironia. Proprio vero che certe scoperte possono sempre avere un duplice scopo. In fondo la chemioterapia stessa segue il principio di tutti i farmaci, che spesso mimano il comportamento del male per insegnare al nostro corpo come combatterlo, solo che è meno sofisticata, un po’ più distruttiva. Mi sto avvelenando per diventare antidoto di me stessa, sto bruciando per rinascere dalle mie ceneri.
IL DOPO
Il dopo non è mai abbastanza vicino. Sono già dopo adesso che è finito il mio ciclo di radio-chemio, ma sono ancora un prima, prima dell’intervento. È finita, mi dico, consapevole che non è finito un bel niente ma che una parte del viaggio è stata fatta, e sono ancora qui a raccontarlo. Un viaggio durissimo che ha dato i risultati sperati: Scilla e Cariddi si sono ritratti davanti agli attacchi congiunti della CURA e miei e consentiranno al chirurgo di fare un buon lavoro radicale questa primavera. Sboccerò come i fiori a nuova vita, mi ripeto ogni giorno, oggi che ancora mi lecco le ferite e ancora faccio fatica a prendere in braccio mia nipote. Il dopo sono i progetti da riprendere in mano, quel pezzo di me accantonato e che grida per riprendere il suo percorso. Il dopo è la consapevolezza che sarò per sempre una sorvegliata speciale, da me ovviamente, perché mai più permetterò al cancro di sorprendermi.
Jon Snow – Game of Thrones – The battle of Bastards
Novembre 2016
Nella mia famiglia le convalescenze si fanno a casa, e casa è Cirò. Non per tutte (siamo solo donne) è così, ovviamente, ma per mia madre è tassativo.
“Dottoressa, ma posso partire subito dopo l’ultima terapia?” Il 10 novembre, due giorni dopo, era già a casetta (perché è piccola e perché non è la casa principale). Io l’ho raggiunta il 12.
“Vieni così ti coccolo un po’”, mi ha detto. Ho avuto la sensazione forte che qualcosa, della mia situazione di salute, avesse percepito. La verità è che quando hai un figlio, resta per sempre questo legame speciale, ombelicale, che ti fa percepire la gioia e il dolore come se lo provassi in prima persona. Devo ricordarmelo, sono madre anch’io.
Cirò significa “la parente” per fare la spesa delle cose buone, il pesce fresco comprato all’alba dal ragazzo che passa in bicicletta davanti casa, significa il tempo che scorre più lentamente e tu lo puoi prendere per pensare, capire, accettare. “Mamma, io non potrò seguirti molto d’ora in poi, purtroppo non sto bene e devo occuparmi di me.” Non è necessario dire molto altro, i dettagli verranno in seguito. Ora tutto il tempo si ferma e si racchiude nel suo sospiro, nel suo ritrarsi, mettersi in secondo piano. Mettersi alle mie spalle per sostenermi, in qualche modo.
Ora provate a immaginare cosa può accadere in una famiglia del Sud quando si manifestano non una, ma ben due malattie importanti e, fino a qualche tempo fa, innominabili. Una tragedia, e non è folklore, è verità. Normalmente almeno sarebbe così.
“Cetta, che ci mangiamo oggi?”
“Quello che vuoi mamma. Che ti ha detto la dottoressa?”
“Ha detto che adesso posso mangiare tutto, anche la sardella. Ma quella della parente, che la fa lei ed è speciale…” Per chi non lo sapesse, la sardella è neonata di pesce azzurro trattata a crudo con QUINTALATE di peperoncino piccante macinato, olio extra vergine, finocchietto e aromi vari. Una bomba. Io non sono sicura che mia madre possa mangiarla, ma non oso contraddirla. Come ho già avuto modo di dire, per noi la CURA passa inevitabilmente dalla buona tavola, e la buona tavola si apparecchia a casetta, dove l’aria odora di sale anche d’inverno e il mare è una culla che aiuta a riposare. E a guarire.