Di un padre, di una figlia, del pessimismo cosmico e della nostalgia.

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Ci sono certi giorni in cui mio padre mi manca in modo irrazionale. Non è che avessimo un bel rapporto io e lui. Sempre a discutere su ogni cosa, a litigare, a sfidarci; mi sono presa anche qualche bella cinghiata da ragazzina, perché osavo tenergli testa. Non ha neppure mai fatto niente di particolare per me, come fanno i padri con i figli, che li orientano e li supportano per le loro scelte future, che utilizzano tutti gli stratagemmi, leciti o anche meno leciti, per garantirgli qualcosa, un lavoro, una posizione, gli studi. Mio padre non ha mai fatto niente del genere, anzi, ci teneva a sottolineare come tutto ciò che aveva (poco o niente) se l’era costruito con le sue sole forze, quindi perché mai lui avrebbe dovuto fare qualcosa per le figlie? Ecco perché questa nostalgia di lui, così forte, è irrazionale. Ma mio padre era il mio punto di equilibrio, era il peso che mi riconduceva costantemente a terra quando osavo volare troppo in alto, e, soprattutto, era la sfida che dovevo vincere ogni giorno, uno scopo, una missione.

Ora quale dovrebbe essere la mia missione? Ho fatto tutto quello che dovevo fare, ho amato, mi sono sposata e ho divorziato, ho vissuto relazioni importanti e fugaci, ho avuto due figli e li ho aiutati a crescere, ho lavorato, tanto, ho imparato e ho insegnato, ho scritto pensieri e mie verità, ho condiviso e ho lottato per me e per gli altri, silenziosamente e facendo una gran cagnara. Ora cosa mi resta da fare? Sii ottimista, mi ripeto spesso. Ma io non sono pessimista, sono solo pragmatica. Credo sinceramente che ognuno di noi abbia uno scopo nella vita, e che, una volta esaurito, abbia il sacrosanto dovere di mettersi a riposo, anche definitivamente. Penso a tutti quei poeti che si sono suicidati in giovane età: forse non avevano più nulla da dire, nessuno da ispirare, avevano succhiato da sé stessi tutto ciò che è umanamente succhiabile e lo avevano abbondantemente rigurgitato per i posteri. Quindi? Fine, the end, la fin. Il povero Leopardi preferiva dare la colpa a tutto l’Universo, specie della sua infelicità, e se ne stava rinchiuso nella sua mega biblioteca, circondato da libri, a chiedersi perché la vita fosse così ingiusta e crudele. Certo non era colpa sua se era così brutto e misogino, ma cazzo! svegliati ragazzo, c’è un mondo fuori, non puoi semplicemente startene relegato qui a sputare sentenze senza aver prima vissuto, o senza averci almeno provato! La sua soluzione finale a questo pessimismo cosmico per cui era colpa di tutti tranne la sua, è stata “la speranza”. Ti darei una pacca sulla spalla, caro Giacomo, da madre e da amica. Proprio l’ultima spiaggia, eh? La speranza… Io posso sperare che il tal progetto vada esattamente come l’ho immaginato, posso sperare che tra i due litiganti non sia sempre il terzo a goderne, posso sperare che domani non piova qui dove vivo. La speranza è un desiderio limitato, solo così si può “sperare” che funzioni, nonostante sia comunque aleatorio. La speranza universale è peggio dell’utopia, è una beffa, una presa per il culo che ci raccontiamo quando non abbiamo più progetti o scopi nella vita e, soprattutto, quando abbiamo perso la capacità di lottare. Non sarebbe stato meglio, caro Giacomino, se avessi preso esempio da qualche tuo collega poeta e avessi deciso per un bel suicidio consolatorio? No, dovevi rompere le palle fino alla fine.

Mio padre continua a mancarmi… una bella discussione ci vorrebbe proprio, adesso che non so perché faccio cose, giorno dopo giorno, perché lotto, perché ancora mi arrabbio. Avrei davvero bisogno di quell’obiettivo: piacergli. Che battaglia sarebbe, ora che sono grande e consapevole, ora che ho imparato a volermi bene anche così, e a odiarmi a volte, ora che ho tutto questo tempo da dedicare solo a me e sono così brava a sprecarlo. Sai che scossa emotiva mi darebbe una delle nostre belle litigate? Magari in macchina, mentre mi accompagni da qualche parte e io ti do indicazioni che puntualmente non segui. Oppure mentre ti racconto una ricetta e tu mi dici che la tua è migliore. O quando ti leggo una poesia, all’alba, mentre beviamo il primo caffè, e tu mi guardi di sbieco e mi chiedi se non ho un modo migliore per trascorrere la notte…

SONO UNA NARRATRICE COMPULSIVA

Sono una narratrice compulsiva. Nel senso che devo scrivere ogni qualvolta ne sento la necessità, e questa necessita’ e’ ormai diventato un bisogno impellente. Ma ho detto narratrice, il che vuol dire che racconto storie. Mi sono chiesta se il mio scopo fosse solo quello di raccontarle oppure anche quello di dire qualcosa, lasciare un messaggio, tracciare un solco tematico di pensiero ripercorribile anche in senso inverso, magari in un futuro remoto. Eh, che cosa complicata ho scritto. In pratica e’ ciò che hanno fatto i letterati che abbiamo studiato più o meno tutti sui banchi di scuola. Leopardi, Verga, Montale, per citarne alcuni, hanno seguito il loro pensiero, hanno espresso la loro personalissima visione del mondo, della vita, della storia, e per questo noi li ricordiamo, li studiamo. Loro hanno lasciato una traccia perenne di se, e per questo sono stati definiti letterati. O forse all’inizio erano anch’essi narratori? Cosa o chi definisce la differenza? Forse i lettori.
Io, quando mi trovo davanti un foglio bianco, comincio a raccontare. Non so dove mi porterà la storia, ne se ci sara’ una morale, un significato più o meno recondito, un pensiero illuminante. Ascolto i personaggi e li faccio parlare, la trama me la dettano loro, io scelgo il linguaggio. Alla fine, solo alla fine riesco a capire “dove” la storia voleva andare a parare. Finche’ la narro mi lascio solo trasportare. E poiché non e’ come a scuola, quando ti davano un tema e tu lo svolgevi con un inizio, un corpo e un finale, ma il titolo te lo dava qualcuno lì pronto a giudicare, poiché non e’ un articolo di cronaca dove si pesca dalla realtà cercando di darle un senso accettabile per tutti, ma qui si tratta del lavoro di mente e cuore nell’attimo sublime in cui si esprimono all’unisono, liberi da vincoli di sorta, allora la storia che si narra un senso ce l’ha, ed e’ quello personalissimo di chi la scrive. Forse allora anche i narratori fanno letteratura, se a guidare la loro mano e’ un profondo sentire e il linguaggio che si utilizza non e’ altro che lo strumento che li fa individuare, che li rende riconoscibili. Eccola un’altra differenza, quella che il lettore coglie. Lo stile e’ come la “classe”, o ce l’hai o non ce l’hai. Si riconoscono subito i mesterianti. Lo stile e’ unico e prezioso, e’ il biglietto da visita del talento, e non s’impara. E allora saranno i posteri a stabilire quando un narratore diventa un letterato ma, se manca il talento, lo scrittore non esiste. Io, che sono una narratrice compulsiva, continuo a scrivere storie, le affido al vostro giudizio di lettori e umilmente ringrazio e attendo.
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