Cetteide – Il ritorno #2

Immagine presa da qui

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Con mia madre gli orari sono importanti. Il tempo è inesorabilmente scandito dalle sue medicine. Non che stia male, ma neppure è in perfetta forma. Lei però, se qualcuno glielo chiede, dice sempre che sta benissimo. Sono così le mamme. Quindi la colazione si fa quindici minuti dopo la pasticca per la pressione e i pasti principali seguono il ritmo cadenzato dei controlli glicemici. Nel mezzo c’è tutto il resto, comprese le soap opera e il sonnellino pomeridiano. E pure ritrovare quei gesti dell’infanzia, tempi lontani ormai…

Lei prepara il pranzo per noi due e io apparecchio la tavola, funziona così, da sempre. E ancora oggi, di due fette di carne alla griglia, la più grande è per me “che tu devi crescere”. Devo crescere? Ma sì, forse ha ragione lei. E poi ci sono i capelli da mettere a posto, coi bigodini, quelli elettrici (esistono ancora, almeno a casa sua). E allora io figlia mi prendo cura di lei, la faccio bella, più di quello che è.

Poi ci sono le chiacchiere notturne, quelle del tempo lento, quando il sonno tarda ad arrivare. L’ho ereditata da lei questa abitudine, che pure con mia figlia i discorsi più belli si fanno di notte. E parla mia madre, parla, parla, e con la sua voce mi culla e mi accompagna nel sogno. E non mi stupirei, se potessi vedere attraverso le palpebre abbassate, di sorprenderla a coprirmi col lenzuolo perché non abbia freddo e a darmi un bacio sulla fronte. Sono così le mamme, mamme per sempre.

Cetteide – Il ritorno

Il rientro a casa dopo una mattinata al Lido è fatto inevitabilmente a tappe. Si passa dalla “parente” (ricordate? Quella che vende i prodotti tipici garantiti), dal fruttivendolo e poi dal fornaio. Oggi però niente pane. ”Ti faccio io le piadine mamma”. La genitrice mi ha guardata, poco convinta, ma tanto la macchina la guido io, quindi si deve adeguare.

Mentre lei si affaccendava tra pentole e fornelli, io ho impastato acqua e farina di grano duro, ho acceso il fuoco sotto un padellino di ferro, ho steso a mano le sfoglie di pasta, e ho cotto le piadine. Poi ho atteso l’ora di pranzo.

piadina

Mia madre non ti dà soddisfazione, specie nell’arte culinaria, però è curiosa. Lei deve assaggiare. E così, di nascosto, mentre ero distratta, ha staccato un pezzetto di piadina e lo ha messo in bocca. E si è illuminata. Commossa. “Per un momento ho risentito in bocca il sapore della mia infanzia, quando c’era la guerra ed eravamo sfollati in campagna. Mia nonna non poteva uscire a fare il pane, che il forno era fuori, e allora puliva il camino, impastava la farina e l’acqua, e metteva le sfoglie a cuocere sulla pietra infuocata. Diceva che avremmo mangiato ‘u pane arrustuto. Non l’avevo più sentito quel sapore…”

Ecco, a volte le generazioni che vengono portano in sé ricordi di un passato mai vissuto, ma che si imprimono nel sangue e, prima o poi, in qualche modo, ritornano.

Nuvola madre, nuvola figlia

 

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Picchiava dannatamente in fretta su quei tasti, con le sue minuscole dita. < Corri Mariè, sbrigati, che fuori piove!> E Marietta volava, e le parole prendevano forma sulle pagine virtuali dello schermo. Aveva dodici anni di vita in corpo e cento nel cuore, per tutte le storie racchiuse che volevano uscire.

L’Internet point chiudeva immancabilmente con lei. Ogni sera. E lei salvava i file in una cartella protetta, salutava il pc con un bacio e andava via, a raccogliere altre parole da trascrivere la sera dopo. Si trascinava fino alla stazione, scendeva nel sottopassaggio, e si raggomitolava nel suo giacchino di jeans, la testa tra le gambe, per dormire. Nessuno lo sapeva che andava lì, nessuno conosceva la sua di storia. Ma poi che importanza aveva? Quelle che raccontava erano immensamente più belle, straordinarie, erano storie felici.

<Ma tua madre Mariè non ti dice niente? Stai sempre qui di pomeriggio. E i compiti non li fai?> La proprietaria dell’Internet point era una mamma, e si preoccupava di quella bimba così gentile e taciturna. “Mia madre. Mia madre non so più dov’è da molto tempo. L’ho cercata tanto. Chissà, magari un giorno leggerà le mie storie e verrà lei a cercare me.” pensava Marietta. Era brava col pc la bambina. Aveva imparato a usarlo all’istituto da cui era fuggita mesi prima, quando aveva avuto fame d’amore, quando aveva avuto voglia di un abbraccio vero. Ma la strada è crudele. Si cresce in fretta per strada. E Marietta aveva indossato una corazza, per difendersi. Solo nella rete liberava il cuore.

Pioveva davvero tanto quella sera. Non c’era modo di scaldarsi, neppure se si faceva piccola piccola dentro di sé, neppure se si stringeva le gambe fino a farsi male. Il freddo pungente e bagnato penetrava la stoffa, graffiava la pelle, ammollava le ossa. E poi tutta quell’acqua che scendeva giù, dalle scale del sottopassaggio. Marietta cercò un angolo, più riparato possibile, e ascoltò per minuti che parvero ore il rumore dei suoi denti che battevano al ritmo della pioggia, che era come il ritmo del suo cuore. E si addormentò.

La signora dell’Internet point si stupì di non vedere la bambina quel pomeriggio. Ormai era diventata una presenza abituale. Più e più volte si affacciò dall’ingresso per scrutare i passanti, per vederla arrivare. Nulla. Il ragazzo del bar aveva lasciato accesa la postazione di Marietta e fu istintivo per lei darci un’occhiata. Eccola la cartella della bambina. Ci voleva la password per aprirla e digitò “mariè” più per scrupolo che per reale convinzione. Funzionava. Pagine e pagine di racconti scorrevano davanti ai suoi occhi stupiti e lei leggeva, con il cuore stretto nella morsa colpevole di chi viola un segreto ben riposto. C’erano mondi incantati lì dentro, e c’era una storia d’amore grande. Quello di una figlia che cerca una madre e che l’attira a sé con l’unica sua ricchezza: le parole.

Le vedi lassù le nuvole gemelle?

Gonfie di bianco latteo, come mammelle

Una che nutre l’altra, che si riempie

Amor di vento e pioggia giù che scende.

Ma il vento soffia  e porta via lontano

Nuvola madre che si strappa il seno

Nuvola figlia segue un nuovo volo

E un altro giorno porterà il suo dono.

C’è magia nella poesia di una bimba, magia potente. La signora pianse mentre capiva, mentre apprendeva l’amara verità. Corse fuori a cercare tra la gente, qualcuno, qualcosa che potesse darle tracce di Mariè. Cercò per le strade, nei portoni, dietro muri scrostati e giunse infine alla stazione dei treni. C’era folla laggiù, e un’ambulanza, e polizia, e nonostante tutto un desolato silenzio. Si affacciò sopra spalle e teste per guardare, lo stomaco in gola, il cuore altrove. <L’hanno trovata per caso. Pareva un fagotto di stracci. Ipotermia. Non sanno se ce la farà.> Mariè…Mariè! La donna si fece largo e guardò quel gomitolo di colori slavati che pure parevano brillanti sul biancore della lettiga. Tese la mano per spostare i capelli dal volto, si avvicinò, testa contro testa, e l’abbracciò. < Il vento mi ha portato le tue parole nuvola figlia.> E Marietta, in quell’abbraccio, sorrise.