La #domanda del secolo: Perché scrivi?

Immagine presa da qui

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La domanda che tutti, lettori e scrittori, ci poniamo è: perché si scrivono libri? E sono giunta al punto di domandarmelo anche io. Tutti scrivono, tutti si definiscono scrittori, e a me questa cosa fa un po’ paura. Quando ho scritto il mio primo romanzo, l’ho pubblicato (una CE me lo ha pubblicato) e l’ho pure venduto, qualcuno mi ha detto: ora sei una scrittrice. Ma chi? Io? Perché, adesso ho una sorta di patente? Come se il fatto di pubblicare un libro ti facesse entrare di diritto in quella categoria, dandoti un riconoscimento pubblico, un titolo onorifico, una “licenza”. Io non la penso così, e allora a chi me lo chiede provo a rispondere in modo più sensato.

Perché in realtà ciò che interessa è il motivo per cui, a un certo punto, viene questo bisogno impellente di scrivere qualcosa di più della lista della spesa. Lo scrittore io lo identifico da sempre con il letterato, colui che dirà quella cosa che cambierà le coscienze,  lascerà quel messaggio che resterà impresso nella storia di tutti. Io mi considero una narratrice tutt’al più, perché racconto storie. E perché le scrivi? Direte voi. Mah, forse perché le considero belle e, poiché non ho molta memoria, se non le scrivo le dimentico. Sì ma, pretendere che gli altri le leggano? No, io non lo pretendo. Mi piacerebbe questo sì. Perché mi sento come a scuola, quando la professoressa di italiano mi dava il tema da fare e poi lo correggeva e io attendevo il giudizio. Ecco, è come se quel tema non avessi ancora finito di scriverlo e attendo il vostro giudizio per andare avanti e consegnarlo ai posteri. Il lettore è il mio giudice, quello con cui mi confronto, che mi dà il voto, quello che mi dirà: “Sì, mi hai raccontato una bella storia“. E io ne sarò felice, come quando i miei figli la sera mi chiedevano ancora una storia prima di andare a incontrare le loro, nel mondo dei sogni.

In fondo un narratore questo fa: crea un incipit che il lettore possa continuare. E se ci riesce allora vale la pena che continui a farlo. Altrimenti potrà sempre donare ai posteri straordinarie liste per il supermercato.

SONO UNA NARRATRICE COMPULSIVA

Sono una narratrice compulsiva. Nel senso che devo scrivere ogni qualvolta ne sento la necessità, e questa necessita’ e’ ormai diventato un bisogno impellente. Ma ho detto narratrice, il che vuol dire che racconto storie. Mi sono chiesta se il mio scopo fosse solo quello di raccontarle oppure anche quello di dire qualcosa, lasciare un messaggio, tracciare un solco tematico di pensiero ripercorribile anche in senso inverso, magari in un futuro remoto. Eh, che cosa complicata ho scritto. In pratica e’ ciò che hanno fatto i letterati che abbiamo studiato più o meno tutti sui banchi di scuola. Leopardi, Verga, Montale, per citarne alcuni, hanno seguito il loro pensiero, hanno espresso la loro personalissima visione del mondo, della vita, della storia, e per questo noi li ricordiamo, li studiamo. Loro hanno lasciato una traccia perenne di se, e per questo sono stati definiti letterati. O forse all’inizio erano anch’essi narratori? Cosa o chi definisce la differenza? Forse i lettori.
Io, quando mi trovo davanti un foglio bianco, comincio a raccontare. Non so dove mi porterà la storia, ne se ci sara’ una morale, un significato più o meno recondito, un pensiero illuminante. Ascolto i personaggi e li faccio parlare, la trama me la dettano loro, io scelgo il linguaggio. Alla fine, solo alla fine riesco a capire “dove” la storia voleva andare a parare. Finche’ la narro mi lascio solo trasportare. E poiché non e’ come a scuola, quando ti davano un tema e tu lo svolgevi con un inizio, un corpo e un finale, ma il titolo te lo dava qualcuno lì pronto a giudicare, poiché non e’ un articolo di cronaca dove si pesca dalla realtà cercando di darle un senso accettabile per tutti, ma qui si tratta del lavoro di mente e cuore nell’attimo sublime in cui si esprimono all’unisono, liberi da vincoli di sorta, allora la storia che si narra un senso ce l’ha, ed e’ quello personalissimo di chi la scrive. Forse allora anche i narratori fanno letteratura, se a guidare la loro mano e’ un profondo sentire e il linguaggio che si utilizza non e’ altro che lo strumento che li fa individuare, che li rende riconoscibili. Eccola un’altra differenza, quella che il lettore coglie. Lo stile e’ come la “classe”, o ce l’hai o non ce l’hai. Si riconoscono subito i mesterianti. Lo stile e’ unico e prezioso, e’ il biglietto da visita del talento, e non s’impara. E allora saranno i posteri a stabilire quando un narratore diventa un letterato ma, se manca il talento, lo scrittore non esiste. Io, che sono una narratrice compulsiva, continuo a scrivere storie, le affido al vostro giudizio di lettori e umilmente ringrazio e attendo.
Sed