Gli Autori Indipendenti, il Selfpublishing e le nuove frontiere dell’editoria. Verso un manifesto per la N.B.A. (No Brand Art)

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N.B.A.

(NoBrandArt)

L’editoria, lo sappiamo bene, sta vivendo una crisi profonda. Il mercato degli eBook, che tanto spaventava le Case Editrici, è destinato ad espandersi, riducendo drasticamente i costi di produzione di un libro e quelli di distribuzione. Ma allora perché le CE non approfittano di questa opportunità? Il timore che i prezzi molto bassi degli eBook svilisca il mercato è un timore infondato. Resta il fatto che, in questo momento almeno in Italia, vi sono tre realtà attinenti l’editoria che cercano, malamente, di convivere: Le major editoriali (CE di catena), la piccola e media editoria indipendente e il selfpublishing. Non inserisco nel terzetto le EAP perché non sono da considerare case editrici. Qualcuno potrà obiettare che neppure il selfpublishing è editoria. A mio avviso sì, perché sono presenti, al suo interno, tutte le fasi di pubblicazione di un libro, anzi di più: la creazione, la ricerca grafica, la correzione della bozza, l’editing, la pubblicazione, la distribuzione.

Partiamo da un assunto generale ma essenziale. I soggetti in letteratura sono due:

1)      Lo scrittore

2)      Il lettore

Senza questi due soggetti l’editoria NON esiste. Accade invece un fatto straordinario. Le Case Editrici hanno, come interlocutori, i librai. Per carità, loro devono esistere, reali o virtuali che siano, guai se così non fosse. Loro sono il “luogo” per eccellenza per far circolare i libri. E allora le CE li invadono di prodotti di vario genere, più o meno validi, lasciando che i librai facciano il loro mestiere: vendere. Nel caso delle major la distribuzione avviene prevalentemente nelle librerie che io definisco GDO (quelle cose immense dove trovi di tutto, anche il caffè), in cui i libri sono esposti in pallet, pile, cataste, mucchi di carta variopinta e il libraio è snaturato da quello che è il suo mestiere. Sta lì alla cassa e si limita ad incassare quello che lettori imbambolati hanno, a volte incautamente, acquistato. Quindi NESSUNA ATTENZIONE AL LETTORE. E neppure allo scrittore, se è per questo. Le major tendono a pubblicare solo libri che fanno cassetta, di nomi noti o di autori stranieri da tradurre, per rientrare più in fretta possibile degli anticipi sui diritti già elargiti e spingere affinché QUEL libro diventi magari un film o giri in TV. Da lì sì che si fanno ricavi! Con un autore nuovo una cosa del genere non accadrà mai.

Nel caso della piccola e media editoria indipendente, in genere la linea editoriale della CE e quella della libreria coincidono. La casa editrice seleziona autori e libri e la libreria fa lo stesso. Qui c’è l’attenzione al lettore, e pure allo scrittore. I tempi di pubblicazione sono lunghissimi perché, ovviamente, le CE sono intasate di manoscritti da leggere e valutare (gli scrittori lo sanno che è proprio lì che si fa lavoro di qualità), ma quando ciò accade si può star certi che l’autore sarà seguito e supportato per emergere. Siamo sicuri? Alcune CE medie (poche, così poche che sono mosche bianche) lo fanno, è vero. Perché hanno sposato la causa dell’indipendenza, perché puntano sulla validità di un prodotto e difendono il “progetto” autore/libro fino alla fine, perché scommettono per vincere. E allora investono nella promozione e nella distribuzione mirata. Non ci saranno grosse cifre nelle vendite, ma sicuramente si farà un lavoro di qualità e l’autore aumenterà il proprio seguito. Un volano per il futuro. I lettori difficilmente restano delusi da queste operazioni. E da queste letture. Il problema è che la maggior parte di queste CE lo scrivono sul contratto che È RICHIESTA LA PARTECIPAZIONE DELL’AUTORE per le attività di promozione. E ben venga, mi pare più che giusto che l’autore ci metta l’impegno e la faccia. Purtroppo è altresì vero che, nella maggior parte dei casi avviene il contrario: l’autore si AUTOPROMUOVE  e forse, dico forse, la CE a volte presenzia. In realtà gli autori si trovano a combattere con, nell’ordine:

  1.       Eventi da organizzare
  2.       Presentazioni da presenziare
  3.       Recensioni da “supplicare”
  4.       Attività social “molesta”
  5.       Copie di libri da richiedere e da “rivendere”
  6.       Libri che NON si trovano
  7.       Copie che NON vengono ristampate
  8.       Comunicati stampa “self made”

L’elenco sarebbe ancora più lungo, ma mi fermo qui, per poter rifiatare. Voi mi direte che per tutti gli autori esordienti è sempre stato così. Certo, ma ormai si è giunti a un punto di non ritorno, e bisogna frenare in fretta perché non è pensabile che uno scrittore faccia questo “lavoro” per ricevere poi, forse, solo una misera percentuale sui ricavi, al netto di tasse e spese. E per cosa poi? Per dare al lettore la “garanzia” certificata da una CE sulla qualità della propria opera? Siamo sicuri anche di questo?

E qui arriviamo al selfpublishing. Col selfpublishing l’autore fa esattamente le stesse cose dei punti suddetti ma ha la possibilità di controllare tutto, proprio tutto il processo distributivo, i costi, i ricavi, e via dicendo. Può, ad esempio, stabilire un prezzo bassissimo per i suoi eBook. Li può regalare. Può scegliersi la copertina. Può scegliersi l’editor con cui andare, magari, d’accordo. Anche qui c’è un problema però. Gli scrittori vanno “a scuola” di selfpublishing e spesso fanno a meno delle professionalità necessarie per fornire al lettore un prodotto valido. Fanno proprio tutto da soli. E in giro c’è tantissima “fuffa”. Come può il lettore fidarsi di uno scrittore auto pubblicato? E, badate bene, lo scrittore auto pubblicato ha ben poco di diverso dallo scrittore pubblicato da CE piccole e medie indipendenti. Manca solo il timbro di qualità.

Allora torniamo ai lettori. Sono loro i destinatari di tante pagine scritte, stampate, digitalizzate. Torniamo a parlare del rispetto che gli dobbiamo. Gli scrittori ci stanno provando, onestamente. C’è tutta una “corrente” di autori che sono stati pubblicati e hanno anche scelto di auto pubblicarsi (per ovvi motivi, direi) che si avvalgono di professionisti, che investono su sé stessi (tanto dovrebbero farlo comunque) e che intendono far prevalere i contenuti sull’apparenza. N.B.A. (No Brand Art) vuole essere questo: un filtro, uno strumento per guidare il lettore verso scelte consapevoli anche nel mondo del selfpublishing. Vogliamo che le CE riprendano quel ruolo che è loro consono di “divulgatori di cultura”, perché la crisi dell’editoria, probabilmente, è cominciata proprio quando hanno smesso di occuparsi di questo.

Alla Fiera della piccola e media editoria di Roma, PiùLibri PiùLiberi un gruppo di questi scrittori ha preso uno stand e ha deciso di cominciare questo nuovo dialogo con i lettori, stabilendo un rapporto di fiducia. Lo ha fatto col supporto della FUIS (Federazione Unitaria Italiana Scrittori) e con l’adesione al progetto di altre figure professionali importanti nella filiera editoriale: editor, grafici, giornalisti. Non era mai successa una cosa del genere. E questo è solo un primo passo. Incontriamoci dal 5 all’8 dicembre al Palazzo dei Congressi a Roma: sarà un bel confronto.

La #domanda del secolo: Perché scrivi?

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La domanda che tutti, lettori e scrittori, ci poniamo è: perché si scrivono libri? E sono giunta al punto di domandarmelo anche io. Tutti scrivono, tutti si definiscono scrittori, e a me questa cosa fa un po’ paura. Quando ho scritto il mio primo romanzo, l’ho pubblicato (una CE me lo ha pubblicato) e l’ho pure venduto, qualcuno mi ha detto: ora sei una scrittrice. Ma chi? Io? Perché, adesso ho una sorta di patente? Come se il fatto di pubblicare un libro ti facesse entrare di diritto in quella categoria, dandoti un riconoscimento pubblico, un titolo onorifico, una “licenza”. Io non la penso così, e allora a chi me lo chiede provo a rispondere in modo più sensato.

Perché in realtà ciò che interessa è il motivo per cui, a un certo punto, viene questo bisogno impellente di scrivere qualcosa di più della lista della spesa. Lo scrittore io lo identifico da sempre con il letterato, colui che dirà quella cosa che cambierà le coscienze,  lascerà quel messaggio che resterà impresso nella storia di tutti. Io mi considero una narratrice tutt’al più, perché racconto storie. E perché le scrivi? Direte voi. Mah, forse perché le considero belle e, poiché non ho molta memoria, se non le scrivo le dimentico. Sì ma, pretendere che gli altri le leggano? No, io non lo pretendo. Mi piacerebbe questo sì. Perché mi sento come a scuola, quando la professoressa di italiano mi dava il tema da fare e poi lo correggeva e io attendevo il giudizio. Ecco, è come se quel tema non avessi ancora finito di scriverlo e attendo il vostro giudizio per andare avanti e consegnarlo ai posteri. Il lettore è il mio giudice, quello con cui mi confronto, che mi dà il voto, quello che mi dirà: “Sì, mi hai raccontato una bella storia“. E io ne sarò felice, come quando i miei figli la sera mi chiedevano ancora una storia prima di andare a incontrare le loro, nel mondo dei sogni.

In fondo un narratore questo fa: crea un incipit che il lettore possa continuare. E se ci riesce allora vale la pena che continui a farlo. Altrimenti potrà sempre donare ai posteri straordinarie liste per il supermercato.

Ma un libro, in fondo, cos’è? #Libro

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Ma un libro in fondo cos’è? Me lo domandavo prima, da lettrice curiosa, quando provavo a immaginare tutto ciò che c’era dietro al lavoro di scrittura. Me lo domando adesso che a scrivere sono io.
Analizziamo le diverse risposte possibili.

  1. È un’opera dell’ingegno. Così dovrebbe essere almeno, l’espressione fisica e tangibile di un talento.
  2. È un bisogno di emergere. Così è per molti, gli invisibili, quelli che per volontà propria o per carenze di altro genere sono relegati ai margini (della società reale o virtuale?).
  3. È una necessità. Quella di esprimersi in modo diverso a volte. Quella di trovare condivisioni altre. Spesso è la necessità di combattere le proprie solitudini, di esorcizzarle.
  4. È il desiderio di esprimere un concetto, un pensiero. Come se scrivendolo questo possa acquisire forza, autorevolezza. Verba volant, scripta manent.
  5. È un’operazione commerciale. Eh sì, può essere anche questo. Penso a tutti quei libri pubblicati al solo scopo di fare cassetta, che si tratti di autori (?) o case editrici.

Sono solo alcuni degli esempi possibili. Credo che quando avrò terminato questo articolo me ne verranno in mente almeno altrettanti, e lo stesso varrà per chi mi legge.
Il problema è che noi tutti scriviamo, sempre. Abbiamo cominciato quando, ancora infanti e puri, ci hanno raccontato la meraviglia delle parole, che non sono solo da dire. Abbiamo imparato la scrittura assieme alla lettura. Che magia! Ancora lo ricordo quel primo momento della comprensione. Nel tempo poi si perde quello stupore, e scrivere, come leggere, diventa una routine, una capacità acquisita, come mangiare, bere, respirare.
Ecco, credo che lo scrittore, quello vero, conservi intatto lo stupore del bambino. E allora il suo libro è il suo mondo incantato, quello in cui tutto può avvenire, e la scrittura è solo il mezzo con cui tutti gli altri possono decifrarne i simboli e ritrovare, magari, la meraviglia che un giorno lontano li aveva appassionati.
Mettiamola così. Un libro è l’incontro di due mondi, quello dello scrittore e quello del lettore, che in quello spazio neutrale, tra quelle pagine che prima erano bianche, ritrovano la loro dimensione congiunta e fantastica. Un libro è un bambino che sogna.