#Ricominciare a scrivere

Innocenza 002.001A volte capita che un testo abbia bisogno di decantare. C’è chi dice per un anno. Ne sono trascorsi due da quando ho abbandonato “Innocenza”. Forse mancava l’ispirazione, forse l’emozione. Tedeschia non è una fonte di tali sussulti del cuore, ma ho avuto modo di rileggere il mio testo, e l’emozione è giunta da lì. Ho deciso di riprenderlo. Lo merita, secondo me.

Un breve estratto (a voi i commenti).

“Il tempo si ferma quando stai bene, ti aiuta a godertelo tutto quel beneficio. Rallenta anche l’aria intorno. Rallenta la luce. Capita che rallenti anche l’urgenza, anzi, scompare. Urgenza di cosa poi? Le dita pigre scorrono sul dorso della mano cercando invisibili pieghe, seguendo il corso dei sottili canali azzurrini che pulsano sotto la pelle tesa, bruna, luccicante. E nulla pare più importante in quel momento se non seguirne il percorso, fin là dove le ramificazioni si fanno più spesse, importanti, e si sente il cuore che batte, anche lì, sul dorso della mano. C’è vita là dentro, c’è vita là fuori.

Lucia si sentiva bene, e basta, e voleva che durasse, perché i pensieri erano lontani, perché il languore persistente era caldo come la luce del sole che ora avvolgeva tutto, le sedie, i tavolini, le insegne, loro due. Manuel la guardava, sempre, anche mentre sorseggiava il suo caffè pieno di zucchero, anche mentre addentava il suo cookie al cioccolato fondente, anche mentre lei lo guardava. Non abbassava lo sguardo, mai. E Lucia rise, come mai prima di allora. Una risata piena che riempì la strada deserta e riecheggiò tra i muri e le finestre chiuse. Pensò di essere impazzita. Non riusciva a smettere e Manuel si unì a lei. Sono contagiose le risate, come gli sbadigli, solo più liberatorie. E a volte non serve neppure chiedersi perché arrivano. Perché è il momento giusto.”

Leggi poesia? No, grazie, la scrivo.

Immagine presa da qui

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Mi capita ultimamente di ascoltare discorsi surreali. “Io non leggo poesia, scrivo soltanto le mie”“Non vi chiedo di valutare i miei testi, ma solo di pubblicarli, quale che sia il costo.”
E potrei fermarmi qui, ma non c’è mai limite al peggio, quindi mi aspetto altro prossimamente.
Queste due perle di saggezza danno però la misura del livello al quale si trova la “cultura” oggi in Italia. Basso, profondamente basso. E qui non mi riferisco all’essere intellettuali o edotti, qui parlo della semplice curiosità che dovrebbe stimolarci a evolvere, a esplorare, a confrontarci. Due prodotti della società odierna sono evidentissimi in quelle due frasi (non lette sul web, ma udite dalle mie povere orecchie… ndr): l’autoreferenzialità e l’esibizionismo.
Che non sarebbero dei grandi mali, se presi e elargiti a piccole dosi, “q.b.” come si dice in gergo culinario. Ma ultimamente sono diventati una pandemia, quindi un vero problema.

Un artista, si sa, vive la propria esistenza in un costante equilibrio tra l’essere e l’esistere. È artista in quanto esprime la propria creatività. Esiste come artista in quanto è riconosciuto come tale. Ecco, oggi questo paradigma è manchevole, oggi si tende solo all’esistere. E allora ogni mezzo appare lecito, anche spendere fior di quattrini per veder stampato un libro, quale che sia il contenuto, quale che sia il fine, la comunicazione, il messaggio. Io non voglio dare giudizi, non è mio compito. Né tanto meno voglio analizzare il perché e il percome si sia giunti a una situazione del genere. Sono preoccupata, questo sì, perché penso che le generazioni future avranno questo tipo di modello sociale di riferimento (anzi, già le generazioni presenti) e si perderà la magnificenza del sogno, dell’immaginario, l’umiltà del duro lavoro e dell’apprendimento, la soddisfazione di un riconoscimento dovuto e meritato, non comprato.

Questo è il percorso di un artista, che sia scrittore o pittore o musicista poco importa. Un artista ha dentro di sé una febbre dalla quale non vuol guarire, la esplora e la confronta e si lascia da essa dilaniare per poi rinascere in altra forma, altra misura, altra espressione di sé. Cova la propria arte, ne ha cura, e quando decide di mostrarla, prima lavora di cesello, diventa artigiano, si attrezza con gli strumenti giusti per offrire al pubblico il meglio di sé. Deve essere così, è giusto, si tratta di dignità (verso sé stessi) e di rispetto (verso gli altri).
L’arte quindi non può prescindere dalla cultura. Ed ecco che il cerchio si chiude. Chi decide di star fuori da questi parametri può sempre far altro nella vita, per esempio leggere…

“Cultura è il patrimonio delle cognizioni e delle esperienze acquisite tramite lo studio, ai fini di una specifica preparazione in uno o più campi del sapere.” [cit.]

C’era una volta: il diario

Diario di Nick Cave, immagine presa da qui

Diario di Nick Cave, immagine presa da qui

Una volta c’era il diario. Oggi ci sono il web e i social network. Abbiamo tutti un bisogno spasmodico di comunicare, qualunque cosa, e lo facciamo scrivendo, ma questo non equivale ad essere scrittori anche se tutti pensiamo di esserlo. In realtà, forse senza saperlo, ambiamo ad essere comunicatori. Forse perché temiamo di non essere ascoltati, e in fondo se ci si pensa bene è proprio così: scriviamo perché da troppo tempo abbiamo paura del silenzio che ci circonda. Si comunica per bisogno e si scrive per paura.          
Quando esisteva il diario, questo era prevalentemente segreto, il custode intimo e sicuro dei nostri pensieri, delle nostre angosce, dei nostri desideri. Guai a far conoscere in giro i nostri sentimenti, guai a denudare la nostra anima. Si viveva un tempo di oscurantismo psicologico per cui i nostri disagi dovevano restare nascosti mentre la massa sociale ostentava forza e sicurezza. Parlo degli anni sessanta/settanta, quando, se qualcuno manifestava qualcosa di diverso, veniva immediatamente isolato o mandato in analisi. E allora si ricorreva al diario segreto. Oggi si sbandiera tutto invece. Se il web ha facilitato e incentivato la comunicazione, ha anche alimentato la smania di protagonismo di molti, o forse di tutti, per cui passiamo il tempo a comunicare scrivendo e lo facciamo di continuo, senza preoccuparci di fermarci ad ascoltare chi sta facendo la stessa cosa. Un continuo cianciare e pestare sui tasti, perché a volte è l’unico rumore che riusciamo a percepire, e ci consola. Eppure questo è triste e inutile, una condanna definitiva all’isolamento.     

Io scrivevo all’epoca, sul mio diario, e scrivo adesso, ovunque. E mi sono interrogata sulle mie motivazioni. Perché ho scoperto che preferisco comunicare di persona, per avere la certezza di essere ascoltata e, sopratutto, di ascoltare. E ho scoperto che il mio rapporto con la scrittura parte dal mio piacere per la lettura, e che le due cose sono strettamente connesse. In fondo ho sempre avuto storie dentro di me, chi non ne ha, e più leggevo più ne scaturivano. E scriverle era il solo modo per non dimenticarle. Scrivo per il mio diletto insomma, e non voglio comunicare nessun messaggio particolare. E allora, direte voi, perché pubblichi i tuoi libri? In fondo potresti limitarti a scriverli e rileggerteli da sola. Li pubblico perché mi piace, tutto qua, per provare il gusto, un domani, di parlarne con altri e ascoltare le loro suggestioni. Lo faccio per il mio piacere e questo credo sia l’unico, vero motivo per cui valga la pena fare qualsiasi cosa.