La signora allo specchio

La signora è stanca. Guarda il telefono che resterà muto; anche se dovesse comporre quel numero mai cancellato nessuna voce dall’altra parte. Da tempo ormai non suona neanche più libero: il numero da lei composto non esiste, e tutto si riduce a questo, si esiste solo se altri ti definiscono come esistente.

La signora è stanca e sola me esiste. Si accarezza il corpo nudo, ne percorre le asperità e le ingiurie con la punta delle dita, segue i solchi più profondi, quelli lasciati da una mano amica e salvifica, quei bordi netti e precisi da lama affilata. Lei stessa è quei bordi, lei stessa è quei solchi, lei è la memoria di ciò che poteva essere e non è stato.

La signora è stanca e sola ma esiste in quei solchi. Guarda quel corpo che ormai è solo un contenitore e pensa che nessuno mai, nessuno mai più lo amerà come un tempo, nessuno troverà bellezza in quelle curve trasformate, in quella pelle così liscia da sembrare di seta, in quei muscoli allentati, come se dormissero. Eppure lei esiste lì dentro, eppure lei è viva lì dentro.

La signora è stanca e sola, esiste nel suo corpo che è involucro e pensa che non importa quanto possa essere diversa agli occhi del mondo perché in realtà è più bella di prima, in realtà quei muscoli allentati portano la fatica di vivere e la gioia di riuscirci ogni giorno. Ci sono sorrisi nascosti, unici, preziosi, che regala a sé stessa ogni giorno e si compiace. Nessuno mai, solo lei…

#Paura di ascoltare [La mia vita in Germania]

 

Immagine presa da qui

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Quando si intraprende un nuovo percorso si tende ad ascoltare la propria voce, perché quella degli altri potrebbe farci perdere. Forse è per questo che qui mi capita di ricevere domande la cui risposta non interessa nessuno. Sono solo lo spunto, il pretesto, per parlare di sé. La propria voce è rassicurante, una guida nella nebbia in cui si galleggia a stento, e ci si scontra magari con i propri limiti, la propria incapacità, le proprie carenze. Eppure sarebbe tanto più logico ascoltare. In un paese straniero, ma non solo, ascoltare l’altro può arricchire, creare relazioni, magari semplici interazioni. E farci sentire meno soli.

Non è facile ascoltare. Ci vuole dedizione, curiosità, pazienza. Ci vuole desiderio di apertura. La nostra voce è l’ancora cui ci appigliamo quando tutto intorno a noi suona “diverso”, è la sicurezza di esistere, uguali a noi stessi, in ogni luogo. La nostra voce diventa il nostro lucchetto, la serratura che ci chiude nel nostro guscio di protezione e non ci fa rischiare di incontrare l’altro. Io parlo molto, ma ho imparato ad ascoltare. Voglio raccontarlo, perché non l’ho imparato così, per educazione ricevuta o per indole. Ho un amico non udente, che non usa il linguaggio dei gesti. Lui parla e legge le labbra. Mi interessava ciò che aveva da raccontare, mi interessava la sua amicizia, e allora ho imparato. Ad ascoltarlo, fino alla fine, senza interrompere, e a parlargli, lentamente, scandendo bene ogni sillaba. Ho dovuto interpretare alcuni suoni, ho dovuto fidarmi di ciò che mi dicevano gli occhi, la gestualità, le pause. Ho imparato la sua lingua, e questo mi dico ogni volta che faccio una domanda e non attendo la risposta: ricordati di ascoltare.
Questo è anche ciò che faccio quando parlano i tedeschi: ascolto e guardo. E imparo.

Sui social network ci sono ogni giorno decine di post, status, richieste che nascono come domande. A volte rispondo. A volte mi defilo. Troppo spesso chi scrive ha solo voglia di ascoltare sé stesso. Da solo nel suo fantastico mondo virtuale. Perché ha paura.

Come Pollicino nel bosco. [La mia vita in Germania]

donna-al-finestrinoChissà cosa provavano gli emigranti del secolo scorso, quando impacchettavano la loro vita e partivano per mete lontane, lontanissime, con l’unica certezza che “là c’è un futuro”…

Io non sono lontanissima, e soprattutto non vivo nel secolo scorso. Posso prendere un treno, un aereo, e in pochissimo tempo tornare a casa. Perché, nonostante la mia partenza, casa mia non è qui. Sono giorni di riflessione questi. Giorni in cui faccio il bilancio di ciò che ho lasciato e ciò che ho trovato. Ne ho il tempo. La solitudine è il peso maggiore da sopportare, e non parlo di solitudine per mancanza di gente (che comunque è davvero pochissima). Parlo di solitudine dovuta all’isolamento. Penso a chi, per scelta, va a vivere in mezzo alle montagne, o a fare l’eremita. Ma come fa? Io qui, in mezzo a questa neve e a questi boschi, mi sento come Pollicino, sperduta.

Ma ho voluto scegliere di darmi un’opportunità, quella di un lavoro ben retribuito, quella di confrontarmi con una realtà sociale più solida e concreta. Eppure mi domando se la solidità e la concretezza non dovremmo cercarle prima dentro noi stessi. È un tarlo questo, che nelle notti silenziose, in questo hotel da romanzo di Steven King, non mi dà tregua.

Qui le persone mi salutano per strada. Nessuno guarda l’altro in cagnesco, le auto possono restare aperte. C’è fiducia. Magari non li capisco quando parlano, ma capita anche che un tizio mi vede smarrita e mi indica, solerte e sorridente, dove posso bere una tazza di caffè (devo avercelo scritto in faccia che ne ho bisogno…).

Poi ci sono le dinamiche lavorative. Pensare che un ristorante italiano debba proporre vitel tonné o penne alla vodka, perché questo i clienti tedeschi si aspettano, mi fa uno strano effetto. La nostra cucina si è evoluta dagli anni ’80, ma l’immaginario degli ex turisti teutonici no. Devo andare a ripescare tutto nel mio cassetto dei ricordi. Chi l’ha detto che bisogna lasciarsi tutto alle spalle? Io, l’ho detto io, ma non è vero. La mia italianità mi serve tutta, perché è l’unica vera forza che ho, ed è triste pensare che a casa mia non serva a niente.

Pollicino era furbo e con uno stratagemma ritrovò la strada di casa. Io sono più furba di lui.

“It’s a long train running. My life…”